Vita d’Adriano
Memorie di un cecchettaro nella neve
diretto e interpretato da Giorgio Felicetti
A Porto Civitanova Marche, all’inizio del ‘900 sorse una fabbrica concepita dal genio, dall’avidità e dall’arrivismo di un uomo, Adriano Cecchetti: 50.000 operai in novanta anni.
Lo spettacolo che ha aperto la nuova stagione del Teatro Comunale di Morrovalle, ne ripropone la parabola discendente attraverso gli occhi di Adriano, operaio “cecchettaro” che racconta gli ultimi 49 anni vissuti dall’interno.
Noi amiamo il teatro di Morrovalle perché fa parte della nostra casa quasi fisicamente: nella condizione a metà, tra abitanti e ospiti, ci piace partecipare a quanto propone questo splendido paesino ricco di storia e di cultura.
Per questo non potevamo mancare alla serata inaugurale.
Nei pochi minuti d’attesa, prima dell’inizio, ci siamo incantati a guardare le travi del soffitto, il sipario e gli arredi, e ci è venuta in mente una domanda, inessenziale come quella sulle anatre che Salinger poneva in “The catch in the rye” (Il giovane Holden): perché sono stati scelti tessuti di colore azzurro, invece del rosso?
Su questa domanda inutile, si sono spente le luci ed è iniziato lo spettacolo: al centro del palcoscenico una sedia; sul fondale, un po’ a sinistra, un orologio che segna le cinque; a terra una bottiglia dalla foggia antica, piena di liquido (acqua?).
Nel buio improvviso è entrato l’attore proponendo una storia: la vita di Adriano detto Ninì, operaio della Cecchetti dall’età di dodici anni.
In realtà, nel buio improvviso una signora del pubblico ha anticipato la drammaturgia con un’altra storia: una crisi di panico che l’ha costretta ad uscire accompagnata da una mano amica.
Mentre l’attore sciorinava il suo racconto in dialetto civitanovese, si delineava una storia veramente poco poetica fatta d’invidie, di rancori, nostalgie cattive, anni rubati: non bella.
Ci preme sottolineare che l’attore ci è sembrato molto bravo. Invece il testo ci è parso ignobile: non un gesto d’amore raccontato – fatta eccezione per la breve comparsa di Rosa –; non un gesto di coraggio e di solidarietà traspare, neanche per agli aiuti ai terremotati del ’36, all’interno di una cronaca rancorosa.
Il presunto attaccamento alla fabbrica aveva il sapore dell’avidità; le amicizie erano basate sullo scherno, sulla derisione più teneri desideri. Ne è d’esempio il racconto del pugile fallito: si preparava alle Olimpiadi di Roma del ‘60 ed il caporeparto, per pura e semplice invidia – direbbero gli psicoanalisti per desideri omosessuali rimossi – ne ostacolò la partecipazione. A distanza di 30 anni l’ex pugile, ormai operaio pensionato, si preparava ad andare a Roma per la prima volta nella vita ed il suo amico Ninì, io narrante del racconto, per la stessa stupida ragione – direbbero gli psicoanalisti per gli stessi desideri omosessuali rimossi -, lo derise l’ennesima volta. Sul raconto di quest’ultimo episodio ignobile si è chiuso il sipario.
Va aggiunto per dovere di cronaca che il testo, oltre al dramma individuale, tenta anche la carta del dramma sociale: la vicenda dell’inquinamento da amianto, uno dei tanti inquinamenti tossici liberalmente diffusi in tutto il nostro paese da squallidi imprenditori non mafiosi, in combutta con squallidi politici non mafiosi.
Noi crediamo che speculare sul dramma, per dare un respiro di grandezza ai sentimenti di invidia, avidità ed avarizia che traboccano in tutto il testo, renda ancora più ignobile una storia senza amore: eccezion fatta per Rosa, unico personaggio umano probabilmente del tutto inventato. Il testo era, comunque, una palese parodia di altri racconti simili di drammi sociali alla moda.
Uscendo dal teatro ci è venuta in mente una risposta per il colore delle tappezzerie: ci piacerebbe che qualche amico ce ne fornisse una propria.
p.desantis