Pranzo di Ferragosto

Pranzo di Ferragosto

di Gianni Di Gregorio

Le marchette erano, un tempo, bolli che si incollavano sui libretti di lavoro: il datore di lavoro li acquistava versando i contributi al dipendente assunto a giornata. Perciò “andare a fare una marchetta” in un periodo in cui scarseggiavano risorse economiche, nonostante consentisse una magra soddisfazione per un’unica giornata di lavoro, era sinonimo di un evento pur sempre positivo.
A Roma la frase “andare a fare una marchetta” assunse un altro significato: per un ragazzo era l’equivalente del fornire prestazioni da “gigolo”; avere, cioè, una ricompensa in danaro per rapporti sessuali consumati con una persona del proprio sesso. In un periodo in cui davvero mancava anche di che mangiare, quello costituiva pure un espediente valido.


Tuttavia quelle “soddisfazioni economiche”, caratteristiche della povertà, nascondevano forti desideri: lavorare anche solo per un giorno costituiva la spinta verso la costruzione di un futuro coraggioso e andare a “battere” al Colosseo (che un tempo era il luogo deputato agli incontri) oppure nei cinemini di periferia, malcelava un autentico desiderio omosessuale e richiedeva una notevole dose di coraggio.
Il film “Pranzo di ferragosto” ci è sembrato una marchetta: anche se dobbiamo riconoscere che l’espressione conservi un accento dispregiativo, tuttavia non la poniamo come valutazione negativa perché il film, strutturato come una sorta di candid camera, è stato ben concepito a partire da una sceneggiatura sviluppata con passione ed accortezza.ù

Questo è il racconto: Gianni (Gianni Di Gregorio) è un maturo signore distinto ma piuttosto male in arnese; vive con l’anziana madre Valeria (Valeria de Franciscis), cui è molto legato.
Dalle prime immagini apprendiamo come l’uomo sia anche molto legato alla Roma di un tempo –quella delle marchette per l’appunto –, che ami bere buon vino e birra e che non sia stato mai sposato: “ha avuto le sue storie” confessa l’anziana madre “ma non ha mai trovato quella giusta.”
I due vivono in un bell’appartamento con terrazzo, in un palazzo vecchio di Trastevere o di Testaccio oppure della Suburra: un posto, insomma, dove rimangono ancora visibili le vestigia della Roma Pasoliniana e, insieme a quelle, sopravvive pure un vecchio “pischello”: il Vichingo (Luigi Marchetti), amico del protagonista, che svolge un po’ il ruolo del Ninetto Davoli.
L’antivigilia di ferragosto si presenta a casa di Gianni l’amministratore dello stabile: Alfonso (Alfonso Santagata), reclamando il pagamento dei notevoli arretrati: si tratta di un ricatto.
Infatti dopo un breve conciliabolo si chiariscono i termini della questione: verrà fatto a Gianni un forte sconto se accetterà di ospitare in casa sua la mamma (Marina Cacciotti) dello stesso Alfonso che, poverino, non potrebbe raggiungere la propria famiglia per il pranzo di ferragosto se non a costo di lasciar sola l’anziana donna.
L’indomani mattina l’uomo si presenta invece con mamma Marisa e zia Maria (Maria Calizia): ancora una volta Gianni accetta di “fare una marchetta” visto che l’altro gli lascia anche qualche banconota per l’ulteriore disturbo e fugge via in tutta fretta.
Infatti, sotto al portone, l’aspetta la giovane amante (immaginiamo una ragazza dell’est; le ragazze dell’est trionfano in questi periodi).
Gianni è anche un po’ patofobico e, nel timore di avere un male incurabile, chiama un vecchio  amico medico (Marcello Ottolenghi) per un consulto: questi volentieri si reca da lui perché, guarda caso, anch’egli vive con la mamma (Grazia Cesarini Sforza) e avendo un turno in ospedale non ha cuore di lasciar sola l’anziana signora per il pranzo di ferragosto. Chiede a Gianni di ospitarla e lascia una mancia per il disturbo, anch’egli.
Le tre donne prendono possesso di tutte le stanze esistenti oltre a quella di Valeria e alla cucina; per Gianni rimane disponibile solo una sedia a sdraio sul balcone.

La convivenza tra le quattro anziane signore si dimostra inizialmente difficile: Valeria è una donna molto viziata che vuole giocare il ruolo della regina; Marina è una prepotente con velleità sessuali e mire indirizzate verso il padrone di casa; zia Maria è una sempliciotta frastornata e simpatica, amante della cucina e del cibo; Grazia è una sadomasochista vittima-carnefice del figlio medico. Gianni si dimostra cuoco validissimo e persona di gusto, nonostante la matrice popolare ed una ansiogena predilezione per il vino.
Tra varie vicissitudini le donne trovano un’intesa fatta di solidarietà e di segreti ricordati in privato ed il pranzo di ferragosto si rivela un successo: ma il tempo è passato e già Grazia deve andar via perché il figlio medico sta arrivando.
Ancora una marchetta risolverà la questione: tra le mani di Grazia appaiono tre banconote che Gianni accetta: sistemerà tutto lui.
L’esile trama riesce a cogliere e a trasmettere alcuni aspetti di una realtà spesso fatta di emarginazione: quella degli anziani o meglio, in questo caso, delle anziane. L’esigenza di liberarsi di figure scomode, piene di esigenze, improduttive e capricciose che, soprattutto, fanno pensare alla morte spinge persino alla prodigalità: meglio pagare piuttosto che rimanerne incastrati.
Il film, realmente povero perché girato solo con 500.000,00 €, è frutto di intelligenza e di espedienti come quello di attribuire ai personaggi gli stessi nomi degli interpreti, per evitare confusioni o studi troppo faticosi: tutti i protagonisti infatti sono presi “dalla strada”, come si diceva un tempo, tranne Gianni Di Gregorio interprete principale, sceneggiatore e regista alla sua opera prima e Alfonso Santagata, che crediamo suo vero amico.

Le anziane signore e gli altri – tra cui il Barbone (Peter Rosu) – sono visi scelti tra la folla in maniera arguta; arguti sono i dialoghi quasi surreali che funzionano anche se inespressivi; argute sono le inquadrature ravvicinatissime dei visi o di taglio e di schiena dei corpi nello scopo di evitare eccessivi imbarazzi o lunghissime e costose ripetizioni di scene sbagliate.
Di Gregorio si dimostra bravo nel costruire un lavoro corale in cui nella povertà dei mezzi a propria disposizione ripropone la lezione di Pier Paolo Pasolini, nella arcaicità del linguaggio, e di Nanni Loy nella capitalizzazione delle immagini raccolte proprio così come vengono.
Non male il motivo musicale del film, di Ratchel & Carratello, purtroppo ripetuto con eccessiva ostinazione; sono valide la fotografia di Gian Enrico Bianchi e la scenografia di Susanna Cascella che approfittano con intelligenza di piccoli squarci di una Roma anonima e popolana piena di fascino; azzeccati i costumi delle signore proposti da Silvia Polidori. Hanno contribuito professionalmente alla confezione del film Simone Riccardini per il soggetto, Marco Spoletini per il montaggio e il fonico Filippo Porcari per la presa diretta.

Pietro De Santis

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