L’Inganno
di Anthony Shaffer
Glauco Mauri e Roberto Sturno
Glauco Mauri festeggia i suoi sessanta anni di teatro mettendo in scena un thriller famoso, premiato nel 1971 come miglior commedia dell’anno in Inghilterra. Questa è la trama: uno scrittore di gialli di grande successo, ricco e celebrato, invita nella propria villa l’amante della moglie per discutere i particolari del divorzio. Egli si dichiara stanco della moglie e felice di separarsi, tanto più che frequenta a sua volta un’altra donna: teme solo che la consorte, abituata ad una vita di lussi, possa stancarsi della condizione meno brillante e preferisca tornare dal ricco marito.
Per scongiurare ogni ripensamento propone all’altro un patto assai curioso: pretende di essere derubato dei gioielli che custodisce in cassaforte. Egli riceverà l’indennizzo dall’assicurazione e il ladro-amante potrà rivendere i gioielli, corredati dalle ricevute d’acquisto, ad un commerciante compiacente in un’altra nazione europea, ottenendone un compenso tale da assicurare alla donna il tenore di vita adeguato e scongiurarne i ripensamenti. Sedotto dall’idea l’altro accetta e cade nell’inganno: l’autore di gialli ha architettato il piano per avere l’opportunità di ucciderlo in casa propria, fingendo di avere affrontato un ladro.
Così sembra accadere: quando il malcapitato cade a terra per il colpo di pistola partito contro di lui, cala il sipario.
Il secondo atto si apre mentre l’anziano scrittore si prepara a pasteggiare con tartine al caviale e champagne. Arriva un funzionario di polizia che ricostruisce pian piano tutto quanto era accaduto due sere prima ed accusa il padrone di casa di avere ucciso l’amante della moglie ed averne occultato il corpo. L’uomo crolla e confessa, ma giura che il colpo di pistola sparato era a salve e che l’altro era svenuto solo per alcuni minuti ed era andato via sulla proprie gambe. Quando sta per precipitare in una crisi di pianto il poliziotto si svela: è il rivale in amore, che si è travestito per rendergli la pariglia dell’inganno.
Aggiunge, però, che la vendetta non è ancora completa: infatti ha voluto raccontare a tutti quanto lo scrittore si sia comportato ignobilmente e quanto sia borioso e pieno di sé: lo ha detto alla moglie e all’amante di lui ed anche agli agenti di polizia del villaggio, dai quali è andato per denunciare l’accaduto. Promette però di andare via e scomparire dalla sua vita: prenderà solo una pelliccia che appartiene alla donna.
L’anziano scrittore, offeso dall’umiliazione che, per altro, gli viene impartita da un immigrato di origine italiana, senza cultura, misero agente di viaggi che sembra arrivato lì per insidiare le mogli dei londinesi, decide di approfittare della nuova opportunità di uccidere il “nemico” fingendo – di nuovo – di avere affrontato un ladro entrato per derubarlo: non ha creduto, infatti, che stia per arrivare la polizia.
Affronta l’altro che, a sua volta, non crede la pistola carica: il colpo parte ed il rivale cade ferito a morte mentre si sentono le sirene della polizia in arrivo.
Il sipario si chiude sulla frase finale del moribondo: « Che stupidaggine!».
La regia e le interpretazioni sono state piene di ritmo e di brio; la commedia si è sviluppata con una sequenza di azioni piene di ironia, ammiccanti allegramente un’idea: si tratta di teatro. Colpiscono, in particolare, la misura, l’eleganza e l’equilibrio della messa in scena in tutte le componenti: la scenografia (di Giuliano Spinelli), i costumi (di Simona Morresi), le musiche (di Germano Mazzocchetti) danno l’impressione di una bella macchina, ben curata, che si muove con grande leggerezza.
Però, proprio riflettendo intorno alla leggerezza frutto di maestria e sapienza registica, mi sono chiesto perché: perché due attori di tale grandezza hanno deciso di “festeggiare” i sessanta anni di carriera artistica di Glauco Mauri con questo lavoro, divertente sì, ma in fondo poco memorabile se paragonato alle tante grandissime opere offerte dalla storia del teatro?
Ma, quasi subito, mi sono detto: «Che stupidaggine! Perché testi più drammatici dovrebbero possedere più dignità? Il teatro è come la vita: drammatica e leggera».
Così pensando, è filtrato un raggio di luce tra le mie riflessioni ed ho ricordato le “motivazioni” al delitto sbandierate dall’assassino: non sopportare di essere umiliato da un immigrato povero e senza cultura, sbarcato in Inghilterra per cercare lavoro e portar via le donne.
Allora ho immaginato che, forse, la scelta di Glauco Mauri e Roberto Sturno aveva anche una seconda motivazione, un messaggio profondo ed elegante, da cogliere fra le righe.
E si è fatto strada anche un terzo, piccolissimo, ulteriore messaggio: la vita in qualsiasi istante è sempre vita, densa di valori e sentimenti.
Dove ho intravisto, un po’ nascosto, quest’ultimo comma? Nella azzeccatissima frase di commiato: «Che stupidaggine!».
Roma, Teatro Valle fino al 28 marzo.
L’INGANNO di Anthony Shaffer
Traduzione, adattamento e regia di Glauco Mauri