Concerto del 21 febbraio 2011
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Alan Gilbert direttore
Nelson Freire pianoforte
Siamo andati ad ascoltare il concerto di musica sinfonica dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia a scatola chiusa, cioè senza conoscere interpreti e programma, semplicemente perché avevamo improvvisamente la sera libera.
Abbiamo scoperto di assistere ad un evento importante della stagione, tanto che la replica del lunedì, generalmente poco affollata, registrava quasi il tutto esaurito.
Nello stesso modo naïf, con il quale siamo andati, desidero parlare delle impressioni che abbiamo riportate, prima di tentare un discorso un po’ più documentato.Il primo brano in programma era il concerto per pianoforte n. 2 di Johannes Brahms, un’opera molto importante, divisa in quattro movimenti. I primi tre movimenti ci sono sembrati una specie di compendio musicale: temi beethoveniani, wagneriani e, in generale, di repertorio romantico, venivano ribaditi a piene mani (!) come una sorta di “Bignami” sinfonico; solo il quarto movimento ci ha coinvolto e ci sembrava proponesse qualcosa di originale.
Apprezzato, in particolare, un dialogo tra primo violoncello (crediamo Gabriele Geminiani) e pianoforte solista (Nelson Freire) per il resto ci siamo domandati se i suoni emessi dalla tastiera abbiano la caratteristica di viaggiare nell’aria più velocemente di quelli emessi dall’intera orchestra. Poiché la risposta è, naturalmente, negativa manifestiamo alcune perplessità sull’interpretazione: ci avevano sfiorato già nel corso del primo movimento allorché, dopo poche decine di battute, l’intensità del suono orchestrale raggiungeva un culmine degno dell’apoteosi finale e non tanto della proposizione di un tema.
I moltissimi applausi condivisi tra il grande pianista, il direttore e l’orchestra non suscitavano alcun ripensamento per la concessione di un bis di cui gli spettatori sono generalmente avidi.
Il secondo brano in programma era Images di Claude Debussy.
Esprimendo suggestioni libere, dichiaro la mia antica e sempre rinnovata meraviglia nell’osservare un enorme numero di orchestrali chiamati sulla scena a non suonare. Ne discutevo anche con Sandro Gindro che semplicemente rispondeva: ci sono. In questo caso, però, mi pare che l’orchestrazione risponda ad un’esigenza armonica ma, anche, ad una funzione estetica dell’orchestra (che non suona o suona a gruppi): una cinquantina di archi con otto contrabbassi, sei percussionisti, fiati a tutto spiano e due arpe suscitano una certa impressione… Infatti, aggiungo con un pizzico d’ironia, si tratta di un quadro impressionista e deve suggerire colori e forme a partire da elementi musicali.
Non posso affermare – tout court – che il brano non mi piaccia: certo non mi è piaciuta l’esecuzione che trovavo slegata e ripetitiva. In ogni caso, mi pare che l’impressionismo non suggerisca la frammentazione delle immagini anzi, al contrario, la frammentazione rappresenti il paradosso della continuità e dell’armonia dell’insieme.
A noi piacciono raramente le direzioni d’orchestra, soprattutto per invidia ma, anche, per alcune incongruenze che ci colpiscono: in questo caso ci è sembrato che il gesto tendesse ad “anticipare” e l’attitudine a “dividere” le battute durante i temi solistici del piano non assicurava l’uniformità del suono che raggiungeva le nostre orecchie con due differenti velocità: v1 dal pianoforte, v2 dall’orchestra. Va aggiunto, per amor di precisione, che non eravamo particolarmente vicini al podio.
Del pianista non sapremmo cosa dire: nel camminare strascicato verso lo strumento manifestava la debolezza dell’anziano – ma anagraficamente non lo è – mentre risultava estremamente vigoroso nell’esecuzione, nello stile violento della famosa Marta Argerich, di cui è ottimo amico.
I colpi di tosse durante i cambi di movimenti e gli applausi finali del pubblico sono stati degni di un gran concerto ma, è pur vero, che gli spettatori son più concentrati a leggere nomi e titoli sui programmi di sala che ad ascoltare.
Essendo il primo ascolto dal vivo di Gilbert e Freire, confesso la mia ignoranza e mi sento obbligato all’incertezza ed aggiungo alcune frasi più documentate.
Quello di Freire è un nome importante nell’universo pianistico: brasiliano, ex enfant prodige (primo concerto a cinque anni), estimatore della musica romantica, è ospite da sessanta anni delle più grandi istituzioni concertistiche e collabora con i più famosi direttori d’orchestra.
A suo modo anche Alan Gilbert è un enfant prodige: in quanto direttore d’orchestra è stato uno dei più giovani ad ottenere il privilegio di una direzione musicale importante, la New York Philarmonic Orchestra. È molto attivo nella musica del ‘900 e contemporanea ed è un notevole ideatore di eventi.
Il concerto per pianoforte e orchestra n. 2, in Si bemolle maggiore, è il più popolare ed eseguito dei due concerti per pianoforte di Johannes Brahms. È considerato il concerto per pianoforte e orchestra più difficile di tutto il repertorio concertistico per le arditezze tecniche e la scrittura non ortodossa. I temi riecheggiano melodie note nel suo tempo. Il brano non conosce conflitti violenti, ma preferisce lanciare solista e orchestra in un dialogo teso ed espressivo (Giacomo Manzoni, Guida all’ascolto della musica sinfonica, Feltrinelli, 1980).
“Images pour orchestre” è una composizione in tre movimenti, scritta tra il 1905 ed il 1912. originariamente l’autore intendeva utilizzare due pianoforti ma, in una lettera del 1906 spiega al suo editore Durand di preferire una partitura orchestrale.
I tre movimenti sono: “Giga”; “Iberia” (a sua volta tripartita) e “Girotondi di primavera”.
Il primo movimento, inizialmente definito “Giga triste”, prende ispirazione da ricordi e melodie inglesi e scozzesi. Nell’orchestrazione sembra che Debussy venisse aiutato da André Caplet.
Le tre sezioni dell’Iberia hanno i titoli: “Per le strade e per i sentieri”; “I profumi della notte”; “Il mattino di un giorno di festa”. La musica è naturalmente ispirata ai ricordi della Spagna. Secondo alcuni commentatori Debussy ha sviluppato il tentativo di trasferire in musica alcune immagini dalle arti figurative (Richard Langham Smith, “Debussy and the Art of the Cinema”, gennaio 1973, Music & Letters,).
Nei “Girotondi di primavera” il compositore ha utilizzato due temi folcloristici francesi: “Nous n’irons plus au bois” e “Do, do l’enfant do”.
(pietro de santis)