Non sparate sul postino
di Derek Benfield, regia di Oberdan Cesanelli.
La vita è sogno – affermava Pedro Calderón de la Barca – e poiché il sogno è teatro, la vita è teatro. La vita vissuta è teatro sempre, poiché ogni essere vivente si sforza di interpretare almeno un personaggio: quello che gli altri pretendono egli sia o, al contrario, quello che gli altri non si attendono.
Ciò avviene inconsapevolmente ma, spesso, in maniera così coinvolgente da essere interessante di per sé. A causa della rappresentazione di se stessi, che è il racconto delle proprie esperienze, la rappresentazione ritualizzata del teatro è, sin dalla notte dei tempi, uno dei più forti motori sociali e delle più verificate tecniche terapeutiche.
Chi calpesta le assi del palcoscenico prende coscienza, almeno parzialmente, di sé e dei propri desideri tanto che, talvolta, personaggi ed interpreti si sovrappongono.
Chi assiste agli spettacoli prende coscienza, abbastanza spesso, di qualcosa di sé e dell’inconscio sociale del mondo in cui si trova a vivere.
Identificazione e proiezione, suggestione e catarsi sono termini adatti all’attività teatrale, come pure invidia e competizione, orgoglio, superbia e permalosità che arricchiscono o guastano le migliori intenzioni di quanti fanno teatro.
Quando, negli anni giovanili del mestiere psicoanalitico, frequentavamo le quinte di un palcoscenico chiamati da amici attori e registi, osservavamo con attenzione e meraviglia i pianti improvvisi delle migliori attrici italiane – mortificate da un tono troppo autoritario del regista –; o ascoltavamo costernati le scenate dei migliori attori italiani – disturbati dal passaggio di una comparsa o di un tecnico – capaci di urlare come zitelle isteriche.
I meccanismi psichici sono propellente e ostacolo all’attività teatrale: la proiezione e l’identificazione dell’interprete verso il personaggio riversano in quello elementi interessanti che, però, lo snaturano anche se non corrispondono alle intenzioni dell’autore.
Talvolta la “lotta” individuale per la comprensione “psicologica” di un personaggio risponde più ad esigenze di competizione ed orgoglio che a reali necessità artistiche: nei cosiddetti spettacoli “corali”, ad esempio, l’approfondimento dei caratteri è un additivo utile ma non essenziale per la macchina teatrale.
Gli spettacoli corali rappresentano, perciò, una specie di mortificazione per quegli attori che si sentono migliori degli altri, perché non riescono ad esprimersi proprio come vorrebbero: attraverso un monologo, un gesto drammatico memorabile, una battuta indimenticabile.
Tuttavia gli spettacoli corali ben equilibrati sono, a loro volta, indimenticabili. Grandissimi attori hanno accettato di partecipare a simili imprese: la Pamela Villoresi delle “Baruffe chiozzotte” con la Regia di Strehler (1992) ci insegnò come la bravura di un interprete, in molti casi consista proprio nello “scomparire”.
Il lungo preambolo serve da introduzione per alcune impressioni riportate intorno a “Non sparate sul postino” (Post horn gallop) di Derek Benfield, spettacolo messo in scena dalla Compagnia delle rane con la regia di Oberdan Cesanelli, che ha concluso la stagione di prosa al Teatro Comunale di Morrovalle, e che ci sembra un ottimo esempio di questo tipo di teatro: tutti i personaggi partecipano a formare un mosaico piacevole, ma nessuno è più importante degli altri nonostante il numero delle battute o i minuti di presenza sulla scena.
La trama è esile: in un castello inglese un pazzo colonnello in pensione (lord Elrood, Massimo Guglielmi), spara su chiunque si avvicini alla porta d’ingresso poiché ritiene sia sempre il postino, una spia nemica che tenta di introdursi a casa sua. La contessa (lady Elrood, Rosita Platinetti) non meno pazza del marito, nel frattempo decide di aprire la magione ai turisti, lasciando la gestione delle visite a pagamento ad un’ennesima pazza (miss Partridge, Marianna Domesi) esperta di arte. A completare un quartetto di pazzie si aggiunge anche la cameriera (Ada, Marina Stortini), desiderosa di cadere innamorata ad ogni occasione, così come prescrivono le canzoni romantiche.
Da queste premesse, in casa – e sul palcoscenico – si susseguono gli ingressi e le uscite concitate e dissennate di tutti i personaggi: Patricia (Eva Delmonte), figlia degli Elrood, e marito (Chester Drednought, Giampaolo Fermanelli); una coppia di visitatori, Bert (Michele Calmieri) e Maggie (Federica Sacchini); due gangster, Capone (Marco Cusmano) e Wedgwood (Stefano Romagnoli) ed un capo scout (Francesco Berto).
Gli equivoci sono inevitabili: per fronteggiare le tante persone in arrivo Elrood chiede “rinforzi”: arrivano cinquanta scout ed egli cerca di colpirli a fucilate. Nello stesso tempo, i gangsters si appropriano di un quadro prezioso, ostacolati da Chester che, però, suscita sospetti nella moglie Patricia e nella suocera lady Elrood, che non riescono a bere un tè in tranquillità.
Miss Partridge si oppone ai banditi che la legano ed imbavagliano; Ada si innamora del capo scout in cerca di acqua e i visitatori Bert e Maggie si aggirano, naso all’in su, nell’antica dimora non riuscendo a trovare l’uscita. Tutto finisce per il meglio.
La confusione descritta, valida chiave interpretativa per questo testo, non ci è sembrata però solo voluta, ma anche subita a causa di uno sforzo mnemonico: ci è sembrato, in altre parole, che gli interpreti fossero più preoccupati della propria memoria piuttosto che del significato di gesti e parole.
Ne è zampillato un divertente narcisismo complessivo, risultato della condizione mentale momentanea degli attori piuttosto che dalla rappresentazione del carattere dei personaggi.
Vogliamo però affermare che il meccanismo teatrale funzionava, nonostante qualche impaccio, sia nei ritmi, sia nella concitazione, sia negli equivoci.
La simpatia che proviamo per la compagnia delle rane è senza remore e assistiamo sempre con piacere agli spettacoli, apprezzando le energie profuse ed i progressi continui: per esempio sono scomparsi quasi del tutto gli accenti dialettali e la dizione è molto migliorata. Troviamo sempre riuscita l’impostazione registica di Oberdan Cesanelli e professionalmente efficaci le semplici scenografie, ma ci piace notare, ogni volta, qualche buona intuizione degli interpreti: ad esempio era particolarmente accattivante il personaggio di Ada, per il quale Marina Stortini è riuscita a trovare i gridolini ed i movimenti adatti al personaggio (con ampio merito della regia) soprattutto nella scena del telefono ad apertura di sipario; Giampaolo Fermanelli ha reso giustamente concitato Chester e Rosita Platinetti è stata una Lady Elrood assolutamente stralunata.
Certo Derek Benfield non può essere paragonato a Carlo Goldoni, ma il testo funziona e merita una riproposizione per la quale vorremmo raccomandare agli attori di lasciarsi andare più liberamente al piacere di recitare insieme.
I tanti applausi meritati a fine spettacolo hanno accompagnato l’auspicio che la prossima giunta comunale rinnovi la convenzione con la compagnia delle rane.
pietro de santis