Musica e poesia sacra
Abbiamo letto sul settimanale romano, che è dedicato agli spettacoli in cartellone, questo bell’annuncio in una serata particolare – giovedì 28 aprile – antivigilia dei grandi festeggiamenti per la beatificazione di Karol Wojtyla: prometteva la lettura di alcune poesie del grande pontefice insieme all’esecuzione di brani di musica sacra.
Erano impegnati il Coro da Camera Italiano e la John Cabot Chamber Orchestra diretti dal M° Giordano Antonelli nella bella chiesa neogotica del Sacro Cuore del Suffragio, in lungotevere Prati, a poche centinaia di metri da Castel Sant’Angelo e via della Conciliazione un luogo, manco a dirlo, stupendo.
In questa piccola chiesa, tanti anni fa, avevamo apprezzato un’esecuzione della toccata e fuga in re min. di Giovanni Sebastiano Bach, eseguita su di un valido strumento in un’ottima acustica. Organo ed acustica sono rimasti gli stessi: per la verità il riverbero è abbastanza forte, ma quella sera, l’organo taceva.
Il programma è iniziato con lo Stabat Mater di Giovanni Pierluigi da Palestrina per due cori a quattro voci (otto parti reali), abbastanza ben eseguito vista la ricca articolazione del brano. L’ambiente è pienamente rinascimentale e cortese e le melodie non risultano così drammatiche come l’argomento lascia supporre ed anche le cadenze, che si concludono spesso nel modo maggiore – Re M, Sol M, Do M – lo confermano; anche se la chiusa finale è in Re m l’impressione che se ne trae è che l’autore abbia voluto suggerire una certa eleganza contemplativa piuttosto che il sentimento della disperazione: contemplazione di un fatto già accaduto, oppure meditazione dinanzi ad un mistero. Non ci è dispiaciuta la conduzione di Antonelli, partecipe e sensibile.
Il secondo brano, misteriosissimo, era un canto “siro-armeno in lingua aramaica” per voce sola: un Pater Noster intonato dal controtenore Razek François Bitar. Erano interessanti le sonorità e ci sembrava buona l’intonazione nei moduli fortemente arcaicizzanti, che riteniamo derivanti dalla musica greca antica. Il limite dell’artista era piuttosto evidente nel registro basso, nel quale mancava di elasticità e sostegno per le note piano, quasi non udibili.
Abbiamo assistito alla metamorfosi del direttore nel terzo brano, il concerto in Sol m per archi, di Alessandro Scarlatti: l’esecuzione ci è sembrata molle e confusa anche a causa delle incredibili contorsioni che Antonelli esibiva piegandosi, alzandosi, curvandosi nel tentativo di adattare la tecnica di direzione di coro, che è quasi un dialogo a tu per tu con persone in piedi e di fronte, ad un’orchestra disposta a semicerchio e seduta. Sembrava ignorare totalmente l’uso della bacchetta, armeggiando con le mani nell’aria, senza ricordare che i musicisti d’orchestra percepiscono principalmente i movimenti della punta dell’oggetto prezioso. Il brano di Scarlatti è molto vigoroso, abbastanza travolgente e drammatico e, comunque, mal si adattava all’acustica della chiesa, troppo riverberante soprattutto per quella conduzione indecisa.
L’ultimo brano in programma è un capolavoro della musica barocca: “Dixit Dominus” di Giorgio Federico Haendel (HWV 232) composto a Roma, nell’aprile 1707. Si tratta del salmo 110 dal Libro di Davide (letto generalmente nella festa del Corpus Domini) messo in musica nel testo latino.
Il lavoro è pervaso da una grande energia e lascia pensare quasi ad una piccola opera teatrale: la partitura prevede cinque voci soliste, coro a cinque parti e piccola orchestra con due violini, due viole e basso continuo. È diviso in otto movimenti nei quali si richiede un grande impegno a tutti i musicisti, in particolare ai solisti vocali da cui si esige energia in tutta la tessitura, ma anche grande agilità ed espressività, ma ripaga con una vitalità che coinvolge e trascina gli ascoltatori. Al momento di questa composizione Handel aveva solo ventidue anni e nonostante la facilità di scrittura, sia per le voci sia per gli strumenti, manifestava molte ingenuità nelle tessiture, ma il brio che vi ha infuso lo ha reso già uno dei grandi lavori per coro ed orchestra.
Difficoltosa e un po’ confusa è stata l’esecuzione del Coro da Camera Italiano e della John Cabot Chamber Orchestra anche a causa della lontananza dal direttore e dagli spettatori, dei solisti – elementi dello stesso coro – relegati dietro l’orchestra, dal cui suono venivano coperti.
A parte due piccoli incidenti accaduti al coro durante gli attacchi del quarto e del sesto movimento, bisogna fare alcune considerazioni sulle coperte troppo corte: la compagine orchestrale era troppo folta per lo spessore di questo coro ma, d’altronde, gli strumentisti non dimostravano la sicurezza per sostenere il peso dell’esecuzione in numero esiguo. Un ragionamento simmetrico deve esser fatto per il coro: il livello musicale del Dixit Dominus richiede una compagine più vigorosa o più folta.
Allora? Si dovrebbe affermare di non utilizzare le coperte corte e non eseguire un brano di tale portata nelle condizioni anzidette. Ma le coperte corte riscaldano un po’ e io non concordo con quel divieto che, però, rimane un imperativo per le grandi istituzioni concertistiche.
Credo si possa e si debba eseguire, anche con difficoltà, qualche brano splendido – perché la musica vince comunque – accettando le critiche, cercando di migliorare le proprie competenze, ma soprattutto rispettando i patti: perché non sono state recitate le preghiere di Karol Wojtyla così come prometteva il programma?
pietro de santis