La grande bellezza
Paolo Sorrentino affonda la camera da presa nelle pieghe della Roma ricco-borghese, osservata attraverso gli occhi disincantati di Jep Gambardella (Toni Servillo), giornalista di costume, critico teatrale, opinionista tuttologo. Famoso e desiderato – per merito del suo unico libro, “L’apparato umano”, pubblicato quaranta anni prima – festeggia con i migliori amici il compimento dei sessantacinque anni.
Nelle vicende che a partire dalla festa di compleanno si susseguono, in giorni e settimane estivi, si delineano i caratteri dei suoi compagni di viaggio: Romano (Carlo Verdone), amico e simbolico alter ego; Viola (Pamela Villoresi), ricca vedova e madre angosciata dallo psicopatologico comportamento del figlio Andrea (Luca Marinelli); Lello Cava (Carlo Buccirosso), industriale spregiudicato; Stefania (Galatea Ranzi), scrittrice passionaria ed idealista, che fa dell’incoerenza la propria forza; Orietta (Isabella Ferrari), fotografa per diletto e sporadica amante di Jep; Egidio (Massimo De Francovich), proprietario di un night e amico di gioventù; Ramona (Sabrina Ferilli), spogliarellista figlia di Egidio; il cardinal Bellucci (Roberto Herlitzka), fatuo depositario dell’ammirazione, antica e speranzosa, rivolta alla chiesa cattolica; infine “La Santa” (Giusi Merli), suora missionaria in odore di santità, appassionata lettrice dell’unico libro scritto dal protagonista.
La bellezza di quel libro, argomento che costituisce un autentico “pedale di basso” nell’armonia del film, e la sua straordinaria accoglienza sono per Jep la pietra di paragone e le colonne d’Ercole di ogni ulteriore possibilità artistica: come accade nella vita di scrittori autentici – valga come esempio la vicenda di J.D. Salinger e del suo The Catcher in the Rye – la ricerca assetata di uno stimolo valido, diviene l’essenza della quotidianità e sostituisce il desiderio di comunicare.
Il protagonista del film, perdute le giovanili ali di Icaro, si è trasformato in un osservatore attento, che spia i segni della “grande bellezza”, qualora si manifestino, la cui percezione rimane l’unico piacere di una vita sostanzialmente vuota. Jep si spende quotidianamente nella “dolce vita” possibile ad un uomo maturo: negli splendori di una città straordinaria e decadente come Roma, nelle amicizie incrostate di abitudini, negli amori sporadici. Ma la grande bellezza gli si sottrae sempre: non appena intravista scivola via.
L’inquietudine ormai tranquilla da ultrasessantenne, divenuta quasi disillusione e assuefazione alla commedia umana, si accende delle poche scintille disponibili nelle ripetute esperienze: gli affetti altrui – come l’amore sofferto di Viola per il figlio Andrea –; gli affetti propri – come il ricordo del primo amore – ; la dedizione calorosa a Ramona, silenziosamente malata, fino al tragico epilogo.
Nelle splendide passeggiate romane, Sorrentino epigono di Stendhal (Promenades dans Rome, 1828) descrive l’ambiente, la società che gli si muove intorno, con occhio da antropologo: e quando ormai lo spettatore si è assuefatto all’idea della decadenza e della morte spirituale, il regista lo scuote gettando in campo l’intervento divino.
Come vero Deus ex Machina, fa il suo ingresso la Santa – figura quasi centenaria – arrivata a Roma, su invito della corte papale, a riconoscimento dell’opera di assistenza prestata agli ultimi della terra: ella desidera conoscere l’autore dell’unico libro laico, cui sia rimasta affezionata dopo la propria conversione. Addormentatasi sul tappeto dello studio, nel meraviglioso appartamento romano con vista sul Colosseo, all’apparire dell’aurora gli fa dono della “grande bellezza”, o meglio, della possibilità di coglierla dentro alle cose.
Il finale coinvolgente, seppure un po’ di maniera, ci ricorda un altro film sognante, “Magnificat” di Pupi Avati: Sorrentino esprime l’amore per la bellezza del creato e dell’arte, attraverso gli occhi di una suora vecchissima; Avati l’aveva descritta attraverso quelli di una novizia giovanissima. Per entrambi, messaggero della “grande bellezza” è il soffio di un vento delicato…
La regia del film ci è sembrata molto attenta e convincente, anche per merito di una sceneggiatura (Paolo Sorrentino e Alberto Contarello) ben scritta e credibile: i personaggi descritti possiedono un’anima e gli attori scelti hanno saputo esprimerla pienamente. In particolare ci sono piaciute le maschere di Ramona – interpretata da una bravissima Sabrina Ferilli, i cui occhi sempre ridenti contribuivano a incorniciare una maschera tragica, sottolineata dalla voce volutamente sgraziata, che ben delineava il personaggio della spogliarellista incolta, malata e innamorata della vita –; e di Viola – una straordinaria Pamela Villoresi che, nei pochi interventi consentiteli dalla sceneggiatura, ha saputo rappresentare una figura angosciata, dai connotati quasi mistici –. Meno interessante ci sembra il personaggio di Romano, interpretato da Carlo Verdone, che rappresenta l’alter ego in negativo del protagonista, ma la cui personalità rimane troppo debole.
Le musiche (Lele Marchitelli) sono giustamente melodiche, ma noiosamente ripetitive e poco efficaci: non lasciano sognare, soprattutto quando sono associate alle splendide visioni della città eterna. La fotografia (Luca Bigazzi) è l’anima del film ed il personaggio di Roma emerge nella sua folgorante bellezza, aiutata dalla scenografia (Stefania Cella) e dall’opportuna scelta dei costumi (Daniela Ciancio). Il montaggio (Cristiano Travaglioli) ha contribuito a dare il ritmo giusto alla pellicola. Unica nota di perplessità riguarda la durata forse un po’ eccessiva.
Pietro De Santis