Don Pasquale
di Gaetano Donizetti
È un’opera in tre atti del 1843, scritta su libretto di Giovanni Ruffini, rimaneggiato da Michele Accursi e dallo stesso Donizetti.
La storia è semplice: don Pasquale è uno scapolo avaro, anziano e burbero, che vuole impedire all’unico nipote, Ernesto, di sposare la vedova Norina. Il motivo di tanta ostinazione è la prospettiva di don Pasquale di accasare il nipote con una donna ricca, per non doverlo mantenere a proprie spese: di fronte al rifiuto di Ernesto, egli si dichiara persino disposto a prendere moglie pur di diseredarlo.Il dottor Malatesta, complice di Norina ed Ernesto, sebbene stipendiato dall’anziano nobiluomo, si adopera a favore dei due giovani e inganna don Pasquale offrendogli in matrimonio una sua improbabile sorella: il piano consiste nel mettergli in casa una donna prepotente ed avida – la stessa Norina si presta la tranello – per fargli sentire sulla pelle come, alla sua età di settantenne, sia più opportuno favorire la felicità dei giovani ed accontentarsi della riconoscenza e dell’affetto di una nidiata di nipotini.
Tutto avviene come previsto: don Pasquale, pur di scampare al matrimonio tardivo con una megera, si rassegna ad assecondare il desiderio di Ernesto.
Il libretto è banale e la trama esile: non offre nulla di meditato o di originale e non andrebbe nemmeno preso in considerazione se la musica non creasse, con uno stacco fenomenale, personaggi a tutto tondo, che racchiudono in sé il carattere del mito.
Le arie si susseguono con limpida bellezza e sono impresse, tutte, nella storia della musica: “Bella siccome un angelo” (es. Leo Nucci, www.youtube.com/watch?v=WuYf0xYMTSc) canta il dottor Malatesta, vantando le qualità della sua misteriosa sorella; “Un foco insolito” (es. Ruggero Raimondi, www.youtube.com/watch?v=PpFJWRBKyOQ) replica don Pasquale da Corneto (la bellissima città medievale rinominata Tarquinia per volontà di Benito Mussolini), parlando della propria reazione psicosomatica; “Quel guardo il cavaliere… so anch’io la virtù magica” (es. Anna Netrebko, www.youtube.com/watch?v=P1u28o1jisc) chiarisce di se stessa Norina; “Com’è gentil” (es. Juan Diego Flores, www.youtube.com/watch?v=-JPrKcwH0iA) stornella felicemente Ernesto, nel giardino di palazzo, recandosi all’appuntamento con l’amata.
Le quattro melodie caratterizzano meglio di ogni parola i personaggi principali: il dottor Malatesta è un traffichino che manovra nell’ombra; egli fa della propria invidia uno strumento di potere. Invidia a don Pasquale la ricchezza e ad Ernesto i favori sessuali di Norina (vedova ed esperta nelle lusinghe del talamo). Il suo tramare nell’ombra gli consente di utilizzare a proprio piacimento il denaro del ricco signore e l’avvenenza della vedova, almeno fantasticamente.
Don Pasquale è il “bove” di aristotelica memoria: si racconta che Aristotele, leggendo l’epigrafe sulla tomba di Sardanapalo – che recitava come quel re fosse riuscito ad ottenere tutto, beni e piacere, grazie alla propria potenza – dicesse che quella scritta sarebbe stata adatta a descrivere un bue piuttosto che un essere umano. Il bove don Pasquale, avaro e tirannico, percepisce solo i propri moti umorali, che vuole soddisfare immediatamente con un tossico adatto (medicinale o sessuale), indifferente ai sentimenti altrui.
Norina è un bellissimo – insopportabile – personaggio: consapevole del proprio potere e della capacità di adoperarlo, ambisce a ricchezza e amore. Come Margherita Gautier o Zerlina o Carmen, sebbene musicalmente descritta in sfumature diverse, punta dritta al proprio scopo: per lei va ugualmente bene sposare don Pasquale o Ernesto. Nel primo caso si comporterebbe così come recita nell’inganno ordito da Malatesta: prenderebbe i soldi del ricco e sceglierebbe come amante il giovane; nell’altro caso, concretizzatosi nell’epilogo, prende il giovane e diviene amante dei beni del ricco.
Infine Ernesto, più ingenuo del “cavalier Riccardo” nell’aria di Norina, è l’innamorato per definizione – del sesso, dell’aprile, della vita che lo accoglie – inconsapevole portatore di un unico valore: “il membro fresco, umile, assetato, che scandalizza per se stesso” (Pasolini, Affabulazione), espressione nella quale il poeta utilizza il verbo scandalizzare nel duplice significato di recare scandalo e suscitare desiderio.
Ma oltre alle arie principali non vanno trascurati duetti e terzetti la cui forza espressiva e teatrale rende formidabile ogni momento dell’opera.
Lo spettacolo allestito al Teatro dell’Opera di Roma – abbiamo assistito alla replica di martedì 25 giugno – ha offerto alti e bassi: innanzitutto un’ottima direzione d’orchestra di Bruno Campanella, lungamente applaudita sin dall’ouverture; un buon don Pasquale interpretato da Nicola Alaimo; una brava Norina (Eleonora Buratto) che, però, nei momenti di grande potenza vocale, dava (a noi) l’impressione di voce un po’ ingolata; un discreto Malatesta (Alessandro Luongo), ma con poca personalità; un modesto Ernesto (Joel Prieto) con una voce piccolina ed un eccessivo accento spagnolo che, nell’aria più importante caratterizzata dalle appoggiature tipiche delle melodie popolari romane, risultava davvero fastidioso; un simpatico notaio (Giorgio Gatti) di cui non si può dire di più, visto che pronuncia solo poche parole. Buono è stato l’intervento del coro dei servitori e divertente la presenza dei tre mimi che commentavano, attraverso i movimenti del corpo, le dichiarazioni del loro padrone don Pasquale.
Qualche perplessità abbiamo avuto rispetto alla regia di Ruggero Cappuccio ed alla scenografia di Carlo Savi: la scelta dello stile minimalista ha penalizzato la brillantezza dell’opera. Il solito eccesso di interventi elettronici, che hanno proiettato le belle foto di Davide Scognamiglio prese da Palazzo Altemps, ci ricorda il sempre più pressante trionfo della tecnologia, che noi vorremmo invece limitata a favore di altri validi contributi materiali quali i bei costumi di Carlo Poggioli e le luci di Agostino Angelini.
La serata, a Roma, rallegrata da un leggero ponentino, ci ricordava di Com’è gentil e di come siamo fortunati.
pietrodesantis