Il visitatore
Trovo che la fatal domanda: “Se Dio esiste, perché permette tutto ciò?” sia una delle più stupide e retoriche da porre e, spero, che Freud non l’abbia mai realmente pronunciata – se non come provocazione – anche se Eric Emanuel Schmitt la propone, nel suo bel testo messo in scena a Roma nel Teatro Quirino. Con quest’opera del 1993 l’autore – allora giovane professore di filosofia – ha vinto tre premi Molière per il teatro. Il testo è stato rappresentato in Italia la prima volta da Turi Ferro e Kim Rossi Stuart con la regia di Antonio Calenda. Da allora vi sono state altre due riprese oltre a questa che vede impegnati Alessandro Haber (Freud) e Alessio Boni (il visitatore) per la regia di Valerio Binasco.
Nella pièce, l’ambiente è l’appartamento di Freud a Vienna: siamo nel 1938, ci sono i nazisti e gli ebrei vengono perseguitati ovunque. È sera e Sigmund attende notizie della figlia Anna, portata via da un ufficiale della Gestapo. Dalla finestra dell’appartamento spunta inaspettato un uomo, il visitatore, intenzionato a intavolare con Sigmund Freud una conversazione sui massimi sistemi. Freud si rende conto, fin dai primi scambi di battute, di avere di fronte nientemeno che Dio, del quale ha sempre negato l’esistenza; oppure un pazzo, in preda ad un delirio. Il pazzo, però, dimostra di conoscere i suoi pensieri più intimi e Freud tentenna: fosse realmente Dio? Del resto, lo strano visitatore non è disposto a dare dimostrazioni definitive di se stesso.
Sappiamo che Schmitt ama porsi interrogativi pieni di suggestione: se Hitler… (La parte dell’altro, 2001); se Gesù… (Il vangelo secondo Pilato, 1995); se Freud… nel tentativo di razionalizzare il razionalizzabile (ed anche di più).
Al tempo in cui si ambienta la vicenda, Freud è già malato da quindici anni (di un tumore al cavo orale) ed ha superato gli ottanta anni; vorrebbe morire a Vienna, ma si risolve a partire proprio a seguito all’arresto della figlia Anna perché capisce che, morto lui, per la donna non ci sarebbe scampo (quattro sorelle di Freud rimaste a Vienna morirono in campo di concentramento). È autentica la frase, inserita nel testo di Schmitt, aggiunta in calce al documento di espatrio – nel quale è scritto che la Gestapo lo ha trattato con il massimo rispetto –: “Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia.”
In quel periodo Freud lavorava all’ultimo scritto importante della sua vita che, effettivamente, riguarda Dio, gli Ebrei e la religione monoteista: L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939). Nelle intenzioni dello scienziato, l’opera si ripromette di umanizzare il mito biblico di Mosé e dimostrare come la fede e la tradizione monoteista non si leghino ad alcuna elezione divina del popolo ebraico, e piuttosto siano il risultato di una scelta politica. Ma, forse, Freud si poneva un obiettivo ulteriore di contribuire alla salvezza degli Ebrei (e non solo) – come un nuovo Mosé – cercando di stimolare una riflessione razionale e laica negli uomini di governo, in un periodo di grandi persecuzioni. Tant’è, il pensiero di Dio era effettivamente forte nella mente del grande studioso; e va comunque sottolineato come egli nutrisse da sempre una certa ambivalenza nei confronti della tradizione e della cultura ebraica.
Nel celeberrimo L’avvenire di un’illusione (1927), Freud aveva descritto la religione come «l’incarnazione dei più antichi, forti e profondi desideri del genere umano» (capitolo 6), ma distingue tuttavia illusione da errore. Un’illusione non è necessariamente falsa: fa l’esempio di una ragazza convinta che un giorno verrà un principe azzurro per sposarla. Benché questo desiderio sia di improbabile realizzazione, non è però impossibile. Ciò che rende la convinzione un’illusione non è la sua infondatezza, ma il fatto che essa sia una proiezione dei nostri più profondi desideri. Di fronte all’affermazione che – data la nostra ignoranza – sarebbe lecito credere in una divinità, Freud risponde: «Se mai ci sia stato il caso di una cattiva scusa, ecco noi l’abbiamo qui. L’ignoranza è ignoranza; nessun diritto a credere in qualcosa può essere derivato da essa.» Certamente la scienza non risponde a tutte le nostre domande ma «…non è un’illusione. Sarebbe invece un’illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che essa non è in grado di darci». Proprio a causa di queste convinzioni freudiane definisco “non freudiana” la fatal domanda iniziale. A meno che…
La logica freudiana è sempre piuttosto serrata e – qualora le premesse non siano sbagliate o non dimostrabili (come in Totem e tabù, 1913) – conduce abbastanza in avanti. Se l’ignoranza non concede il diritto di credere in Dio non concede nemmeno il suo opposto, cioè postulare che non esista. Correttamente, Freud si limita alla considerazione dell’improbabilità dell’esistenza di un dio “paterno”, non dell’impossibilità; corroborando il ragionamento con l’osservazione che la religione esprima il desiderio “del padre”: «l’uomo, cosciente del suo destino finito ed in lotta con le forze della natura, si rivolge a Dio come un bambino desideroso del padre». Ma la logica, suggerisce Sandro Gindro (L’oro della psicoanalisi, 1993), ammette pure il capovolgimento del discorso freudiano: cioè che possa essere invece il rapporto Dio-creatura proiettato nell’inconscio, dal cielo sulla terra, come rapporto padre-figlio.
Comunque Schmitt ci presenta un Freud vecchio, non decrepito; malato, non disperato; che reagisce alle ingiurie della follia sociale (Gestapo) con vigore e persino con violenza: ha un effetto esilarante la diagnosi comportamentale dell’aguzzino, esposta da Anna Freud mentre l’ufficiale-marionetta della Gestapo ne mima esattamente i gesti; suscita il riso l’approfondita analisi di Sigmund sulle paure inconsce, del medesimo ufficiale, di essere confuso con un ebreo e l’imbarazzo che gliene consegue. Amara considerazione è stimolata, però, da quest’ultimo passaggio: è la rappresentazione della viltà di colui che, sentendosi debole, si rende feroce nei confronti di chi è indifeso. È consolatorio e rasserenante che qualcuno, psicoterapeuta o maestro, possa riconoscere questa debolezza, ne espliciti le paure che la nutrono, e dissipando così – almeno in parte – la ferocia del meccanismo di difesa, renda quell’individuo più libero dalla propria insulsa cattiveria (e dai suoi stessi fantasmi).
Sulla scena Nicoletta Robello Bracciforti è una Anna Freud un tantino isterica, ma è pur vero che abbiamo conosciuto personalmente reali psicoterapeute molto più isteriche di questo personaggio; Alessandro Tedeschi è un ufficiale della Gestapo giustamente grottesco e vile; un ottimo Alessandro Haber è, come sempre, capace di trasfigurare la sua persona reale nel personaggio che interpreta assorbendone l’anima; molto bravo ci è sembrato Alessandro Boni, giustamente sopra le righe come il personaggio surreale richiede. Le musiche di Arturo Annechino sono adeguate al dramma ironico; nelle scene di Carlo De Martino riconosciamo vagamente il vestibolo ed il soggiorno dell’appartamento di Berggstrasse 19 (ora museo della psicoanalisi) ed i costumi di Sandra Cardini sono in tono. La regia di Valerio Binasco ci pare sappia cogliere alcune sfumature del carattere dell’Uomo Freud e della sua scienza monoteista. Assolutamente centrata e significativa la battuta finale del testo: il visitatore fugge dalla finestra dalla quale è entrato, e Sigmund gli spara per fermarlo allo scopo di verificarne la natura umana o divina. La risposta alla domanda angosciata di Anna è: “L’ho mancato”. È il senso della pièce, che il credente Eric Emmanuel Schmitt suggerisce: Freud ha mancato l’idea di Dio. pietrodesantis