Ravenna di Antonio Pizzuto
Racconta l’autore di avere incontrato, una volta su un treno, un signore francese che gli aveva parlato di una propria composizione per pianoforte intitolata Ravenna. Incontratisi a Parigi, Pizzuto venne invitato ad ascoltarlo suonare; fatti gli apprezzamenti generici, egli fu incuriosito dal titolo: “Perché Ravenna?”, “Così – fu la risposta – come uno viene chiamato Carlo oppure Giovanni”. La battuta, insensata all’apparenza, contiene un significato: generalmente i nomi vengono attribuiti prima di sapere come vivranno coloro che li subiscono (anche se abbiamo imparato che i nomi a loro volta condizionano i comportamenti…)
Comunque Pizzuto completò il libro (il 22 gennaio 1962, alle ore 16.38) e gli impose il titolo Ravenna, proprio come Carlo oppure Giovanni. Di Ravenna – ovviamente – nel libro non c’è traccia, a parte un piccolo gioco di parole, un’intesa tra padre e figlia: “La mano di Fufina sommessa a frequenti ben somministrate toccatine massoniche, stiamo in guardia, gli occhi paterni tondi quali li ritrasse Piero, chi vive, Gela Genova altolà Pavia Parma, chi va là Ravenna Rav rav non lo dirai no silenzio” (pag. 40). Già leggendo questa frase si rende palese qualcosa di particolare nella scrittura: la descrizione (la mano di Fufina…) ed il discorso diretto (stiamo in guardia) sono trattati alla pari, inseriti nel periodo senza preparazione o avvisi, dati dai segni di interpunzione. Si tratta di una scrittura teatrale (o musicale) che va letta e immaginata alla maniera di una rappresentazione scenica, poiché non è di per sé descrittiva. Si notano poi altri due fatti: la presenza di riferimenti colti (Piero della Francesca) – anche questi non preparati – ed il trattamento dei nomi alla latina, cioè senza la separazione delle virgole (Gela Genova altolà Pavia Parma).
In questo stile ci si deve immergere e bagnarsi con attenzione, per comprendere il senso della scrittura ed il contenuto.
Ravenna racconta una specie di saga famigliare di stampo matriarcale: Pizzuto considera, infatti, il potere (sessuale e pratico) totalmente di gestione femminile. L’unica possibilità che rimane agli uomini è alienarsi, cioè dedicarsi ad altro: letteratura, poesia, musica, matematica… e sottrarsi il più possibile al rapporto – pur molto desiderato – con la donna.
Anche perché è la stessa donna a non tollerare il rapporto con il maschio: cioè ne tollera l’invadenza infantile e adolescenziale; il vigore sessuale giovanile oppure la potenza economica. Poi l’uomo le viene a noia: sia che obbedisca ai suoi voleri, sia che li contravvenga.
Nella prima parte del racconto assistiamo ad un ménage a quatre: Malinda ha una figlia, Fufina, avuta con Andrea, il quale è in perenne ricerca di un’attività redditizia. Vive con loro Foco che è uno scrittore abbastanza affermato, pur se piuttosto povero; e li frequenta pure Cicì un giovane e ricco spasimante di Malinda. Andrea e Foco (che rappresentano lo stesso autore in età diverse, l’opera è abbastanza autobiografica) si avvicinano ed allontanano da Malinda perché ella è sempre furente: Cicì è invece al suo servizio, si suppone in tutti i sensi.
Ma poi Cicì scompare e Malinda, ormai quarantenne, resta sola con Andrea – che va e viene – e con Fufina, già adolescente, che si innamora di Nanni. Da qui comincia la seconda parte della storia che ha come protagonisti i due giovani che vanno a nozze. Nanni è di famiglia ricca e potente, perciò è rispettato ed il matrimonio è buono. Fufina lavora nella ditta del marito ed è lei a gestire con vigore l’amministrazione; però rimane legata a Malinda, ormai sola, visto che Andrea che, pur vorrebbe starle insieme, se ne tiene lontano a causa delle solite tensioni. Fufina partorisce: Mino è l’idolo della famiglia e Malinda rifiuta il titolo di nonna, ma vuole essere nominata dal bimbo mogliettina.
Assistiamo ad un terzo tempo. I figli di Fufina e Nanni sono ormai tre; Malinda è anziana e non riesce più a camminare; Andrea forse è ricoverato in una casa di cura, perché teme di non essere più gradito, ma Foco ogni tanto appare. Ci si avvia all’epilogo in cui ormai Mino è adulto ed in procinto della laurea: attendiamo l’ingresso di un altro personaggio femminile al posto del primo, cioè Malinda, che dovrà scomparire. Pizzuto, però, non vuole palesare tutto ciò e conclude la vicenda attraverso un capitolo pieno d’ironia ed assolutamente estraneo a quanto proposto finora, proprio come il dramma satiresco posto a conclusione delle tragedie in Grecia.
C’è il vecchio e povero pensionato Momo: sua moglie Lami, anziana impettita insegnante di pianoforte, lo tratta esattamente come tutte le donne trattano i mariti in quelle condizioni. La loro figlia Polla ha un bebé: Ottavio. Nella notte di San Silvestro, Momo tenta di fare un discorso, ma non ci riesce perché le donne lo interrompono in continuazione. Nello stesso momento, con grande attenzione femminile anche Ottavio tenta di fare un discorso, indicando i fuochi d’artificio: “evocando il fruscio con interiezioni convulse, salivali fvscscsci, per dirla più semplice un intrico di fricative affricate spiranti sillabanti, ed il suo commento: bee. Prodigioso bimbo: a soli undici mesi e quaranta giorni”.
Non sfuggirà, del testo, la grande ironia commista ad un profondo realismo: il sentimento più difficile è quello dell’amore, sempre sottomesso all’ambizione ed al potere. Ci si innamora e ci si sposa con l’uomo o la donna che poi non si ameranno più: si cercheranno altri amori. E se questi venissero sostituiti a quelli, avrebbero ora la stessa sorte: il sentimento finirà e si sentirà il bisogno di un’emozione nuova, in sostituzione di quella vecchia.
Consiglio ai naviganti (da parte di Pizzuto e dello scrivente): stare attenti agli egoismi. Dedicato a chi vuol capire.
Pietro De Santis