La paranza dei bambini
In una Napoli devastata dalle dee Madri si svolge una tragedia antica…
A me sembra incredibile, dopo 120 anni di psicoanalisi, che le tragedie classiche, quelle di Shakespeare, quasi tutta la letteratura mondiale – i cui testi nel 2017 sono completamente disponibili – vengano sempre sistematicamente malintese. Alla confusione dei significati, probabilmente contribuisce l’inganno involontario di ritenere scomparso ogni tabu, indotto dall’ufficializzazione delle più eterogenee scelte sessuali. Ma questo fatto (cioè la scomparsa dei tabu) non è socialmente vero – e non lo è in nessuna parte del mondo – né filosoficamente corretto, poiché rimane tuttora universalmente resistente la confusione / sovrapposizione tra pene e fallo. La mancanza di lucidità in tal senso è colpevole e genera disastri nelle coppie (di qualsiasi estrazione sociale e sessuale) e nei gruppi.
La Paranza dei bambini è – all’insaputa dello scrittore Roberto Saviano e del drammaturgo Mario Gelardi – una diversa rappresentazione dell’eterna tensione tra fantasie omosessuali ed invidia: Otello e Jago in questo testo agiscono a ruoli invertiti; è Otello (Marajà), il possessore del fallo, colui che tesse le trame di un tradimento; mentre Jago (Dentino), suo luogotenente, possessore consapevole del proprio pène, è leale (nell’opera Shakespeariana entrambi gli attributi appartengono ad Otello).
Collego alcuni inserti del programma di sala a questa premessa un poco oscura:
“Hanno scarpe firmate, famiglie quasi normali e grandi ali d’appartenenza tatuate sulla schiena. Sfrecciano in moto contromano per le vie di Napoli perché sanno che la loro unica possibilità è giocarsi tutto e subito. Non temono il carcere né la morte. Sparano, spacciano, spendono. Sono la paranza dei bambini. Nel gergo camorristico ‘paranza’ significa gruppo criminale, ma il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L’espressione ‘paranza dei bambini’ indica la batteria di fuoco, ma restituisce anche con una certa fedeltà l’immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti, proprio come quei giovanissimi legati alla camorra.
Questo progetto teatrale racconta la controversa ascesa di una tribù adolescente verso il potere, pronta a piombare nel buio della tragedia scespiriana (lo studioso Jan Kott diceva che il macello è uno dei temi nodali dell’opera di Shakespeare) e nel nero infinito dei fumetti di Frank Miller. «Io per diventare bambino ci ho messo dieci anni, per spararti in faccia ci metto un secondo».”
Ecco, nell’ottica politico sociale questo è il malessere: andare contromano, cioè non rispettare le regole istituzionali; e c’è l’illusione che una migliore comprensione e condivisione delle regole guarirebbe dal male…
Un gruppo di adolescenti, emarginati ma non troppo, irretiti dal desiderio comune di diventare i potenti del quartiere e poi della città, inizia la carriera camorrista: lo spaccio intorno ad un locale importante. Il giovane capo del gruppo sa pensare, è intelligente e scaltro; sa sfidare la violenza dei potenti per condurre il gruppo dei compagni – ‘la paranza’ – al centro del circuito criminale. Il successo immediato induce Marajà a tentare il passo di entrare nelle grazie di un noto criminale, Vittorio detto l’Arcangelo (dall’ambigua sessualità) temporaneamente fuori dal giro importante ma pur sempre influente: da lui ottiene – in franchising – droga e armi, grazie alle quali competere per il controllo del quartiere.
Alla storia di criminalità si intrecciano due relazioni d’amore: Dentino, il fidato e leale ‘luogotenente’ tiene sotto l’ala protettiva il più ingenuo del gruppo – galoppino dell’Arcangelo – e Marajà protegge il fratello minore, per volontà della madre, l’unico che frequenti ancora la scuola.
Due madri incombono senza apparire: la madre di Marajà, le cui richieste egli accontenta; e la madre del boss di quartiere. Le due madri danno il via alla tragedia: il boss di quartiere promette più potere a Marajà purché uccida l’amico di Dentino, che mancò di rispetto alla madre sua (l’Arcangelo aveva sentenziato “non si è uomini se non si uccide”); Dentino uccide il fratello di Marajà per ‘equità morale’ più che per banale ritorsione. Le due divinità, ottenuto il sacrificio umano, sono placate pur se con strepiti e drammi; mentre per i due protagonisti e per la paranza dei bambini la dannazione è compiuta.
Lo spettacolo è bellissimo: un plauso incondizionato va a quanti, attori e non, hanno partecipato all’allestimento ed alla messa in scena.
C’è un mondo, quello della politica e dell’educazione, che seguita ad impuntarsi nella convinzione che l’inconscio non esista e che tutto possa essere spiegato in termini di ‘bisogni primari’ e ‘ricchezza pro capite’: certamente, in un mondo costruito e interpretato affinché tutto sia così sfacciatamente a vantaggio di pochi, non possono che perpetrarsi sentimenti d’invidia e di rabbia; ma nel mondo parallelo e nascosto, quello inconscio, c’è qualcosa che agisce sempre e silenziosamente ed ha la forza devastante del desiderio incomprensibile. Per svelarlo bisogna analizzare meglio, utilizzare tutti gli strumenti: quelli della cultura innanzitutto.
Con il passare del tempo, e forse con l’età, mi si delinea sempre più vivida in mente la presenza di due mondi paralleli: uno apparente, l’altro nascosto ed io preferisco parlare di quest’ultimo. Tutti gli adolescenti, maschi e femmine, provano desideri omosessuali inconsci: Dentino ha un amore omosessuale di cui è consapevole – non importa se consumato oppure no – verso il più giovane ed ingenuo amico; non se ne spaventa perché fornisce al proprio sentimento la giustificazione morale della riconoscenza: il suo giovane amico è andato in carcere per non denunciarlo. Marajà è invece obbligato – dalla madre – a coltivare un amore omosessuale non consentito, e forse non desiderato, verso il fratello mentre è invece ‘innamorato’ di Dentino.
L’invidia di Marajà è duplice: verso il fallo del boss di quartiere e dell’Arcangelo, rappresentato dal loro potere e dalla loro ricchezza; e verso il pène di Dentino, rappresentato dalla tenera storia d’amore nei confronti dell’amico. Il trionfo di Marajà equivale alla sua dannazione.
Le due dee madri, pur consapevoli di tutta la possibile distruzione, non sanno rinunciare al proprio desiderio del fallo – rappresentato dal potere ricattatorio dell’affetto –; e al proprio desiderio del pène – rappresentato della ‘mascolinità’ dei propri figli – che i giovani criminali esibiscono a colpi di pistola.
Le dee madri, purtroppo, rivendicano sempre il diritto al proprio potere: lo esigono compiendo gesti prepotenti addirittura dall’istante del concepimento… (pietro de santis)
di Roberto Saviano e Mario Gelardi
regia Mario Gelardi
con Vincenzo Antonucci, Luigi Bignone, Carlo Caracciolo, Antimo Casertano, Riccardo Ciccarelli, Mariano Coletti, Giampiero de Concilio, Simone Fiorillo, Carlo Geltrude, Enrico Maria Pacini
scene Armando Alovisi
costumi 0770 di Irene De Caprio
musica Tommy Grieco
luci Paco Summonte
collaborazione alla regia Carlo Caracciolo
aiuto regia Irene Grasso
programmazione Mismaonda Gianluca Russino e Laura Montagna
progetto Nuovo Teatro Sanità
prodotto da Mismaonda
in collaborazione con Marche Teatro
charity partner Amref Health Africa