Finale di partita
Samuel Beckett, discreto giocatore di scacchi, diede alla commedia tragica il titolo suggeritogli dalle tre fasi di una partita: apertura, mediogioco, finale. Nell’apertura si hanno a disposizione tutti i pezzi, il che consente grandi possibilità di movimento e strategie; nel mediogioco i pezzi sono ridotti di numero, ma le strategie disponibili ad un buon giocatore sono sempre molte; nel finale di partita i pezzi si sono ridotti al minimo, le strategie quasi al nulla e l’esito è inevitabile.
Erano gli anni ’50 quando l’autore propose questo testo, periodo post bellico della seconda guerra mondiale e della Guerra di Corea (1950 – 1953); nel pieno sviluppo delle armi atomiche che minacciavano distruzioni totali: i famigerati esperimenti atomici dell’esercito statunitense sull’atollo di Bikini si protrassero dal 1946 al 1958: spaccata dalle esplosioni, l’isola suggerì – a qualche ottimo pensatore – il nome per un innovativo costume da bagno…
Finale di Partita si svolge in uno scenario che viene (e venne) definito post-atomico. Tutto, nel testo, lascia immaginare che una catastrofe abbia cancellato ogni traccia di vita sulla Terra: Hamm (Glauco Mauri), Clov (Roberto Sturno) e i due genitori di Hamm, Nagg (Mauro Mandolini) e Nell (Elisa Di Eusanio) sono, come ci è dato di vedere, gli ultimi esseri viventi che trascorrono i loro giorni chiusi nella sala principale della casa di Hamm.
Hamm, cieco e paralizzato, aderisce ad una sedia a rotelle formando con essa un unico corpo; egli tormenta Clov con ordini assurdi, ritrattati immediatamente dopo. Clov non si può sedere perché non è in grado di piegare le gambe, ma è l’unico dei quattro che sia in grado di muoversi e vedere; obbedisce con esasperata compulsiva energia al suo padrone, cui rinfaccia continuamente l’intenzione di andarsene, anche se a rischio della vita. I genitori di Hamm sono privi di gambe e vegetano all’interno di due bidoni della spazzatura (sostituiti, in questa messa in scena, da cassettoni scorrevoli che sbucano come loculi dalla parete).
Sebbene Beckett, durante le prove dello spettacolo allo Schiller Theater di Berlino, abbia dichiarato che: “Hamm è il re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare la fine inevitabile”; tuttavia noi vogliamo cogliere appieno l’aspetto della metafora famigliare che, nel testo, è piuttosto esplicita.
Già dagli anni venti la valenza positiva attribuita romanticamente alla famiglia era stata messa in discussione: prima dagli studi freudiani, poi da quelli dell’Istituto per le Ricerche Sociali (fondato a Francoforte sul Meno nel 1923 da Felix Weil) e della successiva Scuola di Francoforte, con i massimi esponenti: Max Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse ed alcuni altri noti. La famiglia, edonisticamente considerata luogo della solidarietà e dell’affetto, risulta essere – piuttosto – il luogo ove tutte le contraddizioni, racchiuse nelle dinamiche interpersonali, si esplicitano con la massima virulenza. Questa è la metafora che analizziamo attraverso la vicenda tragicomica dei quattro personaggi beckettiani. Si tratta di una famiglia borghese osservata nel momento più drammatico, in cui le età di tutti i componenti sono avanzate: i genitori sono decrepiti ed i figli (l’unico figlio in questo caso) hanno superato la mezz’età; una famiglia, cioè, le cui speranze verso il domani non possono più sorgere dal proprio interno, ma sono attese dall’esterno come evento miracolistico.
Nagg e Nell sono senza gambe e vivono nei bidoni dell’immondizia in quanto rappresentano i vecchi ormai infermi – e di fatto abbandonati nelle loro immondizie – ed ingombranti: rivolti narcisisticamente verso di sé e verso il passato nel ricordo di una sessualità, ancora tanto sospirata, di cui rimane solo una “grattatina alla schiena”.
Il contatto con questa realtà scomoda imprigiona i protagonisti Hamm e Clov: il primo ha abbandonato sentimentalmente i due vecchi ma non li può lasciare (la paralisi è una semplificazione dell’obbligo morale); tuttavia non vuole nemmeno prendersene cura (non li può vedere); le sue attenzioni si riducono alla pura elemosina, come accade purtroppo realmente nella grande maggiornaza dei casi.
La figura di Clov è ambigua: servitore o compagno, è uomo ma potrebbe essere donna, poiché svolge quella funzione che, ancora ai nostri giorni, viene ritenuta missione femminile.
La vicenda si dipana in un tempo verosimilmente pari ad una giornata, anche se lo scorrere delle ore è puramente formale, in quanto nulla cambia nelle dinamiche o nelle azioni; solo si percepisce una certa attesa di momenti particolari: l’apertura delle finestre, la passeggiata intorno alla stanza, il momento dell’analgesico o della pappa, così come accade esattamente all’interno di questa tipologia famigliare.
Una vita fatta di nulla si confronta con il nulla: tempo e spazio non hanno alcun significato, tant’è che talvolta Clov, spiando dalla finestra con il cannocchiale se ci sia vita all’orizzonte, confonde i lati della casa, la terra con il mare… La dinamica relazionale tra i due protagonisti è una successione di battibecchi, come tra conviventi adulti – in possesso ancora di qualche potere ricattatorio – ormai stanchi della propria reciproca relazione ed annoiati di se stessi e della povertà dei desideri.
Tutto è ripetizione. La sola vita che si manifesti nella pièce è, per paradosso, quella dei due vecchi che, ormai fuori della realtà, perlomeno reclamano i bisogni corporali: la pappa e una sfacciata sessualità, totalmente inibita ma pure così presente: la loro essenza è il corpo monco… tant’è che il regista Andrea Baracco li fa stare nudi in quelle gabbie da conigli. Cosicché abbiamo potuto ammirare il bel torace possente di Mauro Mandolini ed il suo bassoventre un po’ rilassato con il pene pendulo; le mammelle piuttosto gonfie di Elisa Di Eusanio, meno visibile il pube. Credo che le nostre – e i nostri – badanti conoscano piuttosto bene i corpi degli anziani e stanchi genitori…
Gli interpreti sono bravissimi: Glauco Mauri e Roberto Sturno sono straordinari, ma anche i due comprimari mostrano uno spessore artistico di tutto rilievo. Le scene e i costumi Marta Crisolini Malatesta sono ispirati correttamente al surreale post atomico e le musiche di James Vezzani sono giustamente estranianti. Qualche riserva abbiamo sul lavoro del regista, senza dubbio corretto, che ci lascia l’impressione – già provata in Edipo Re messo in scena con gli stessi attori – gli sia sfuggito qualcosa. (pietrodesantis)