Mezzogiorno a Spoleto
Abbiamo un legame profondo con il Festival di Spoleto dal 1984 e, inoltre, una suggestione ancora precedente che risale a dieci anni prima, da un occasionale pomeriggio d’agosto nel Duomo, dedicato a Santa Maria Assunta. Un particolare affetto sentiamo per i concerti di mezzogiorno, invenzione di Gian Carlo Menotti credo, che inizialmente si tenevano nel Teatro Caio Melisso – allo scoccare del dodicesimo tocco scandito dal campanone – ed ora invece nella millenaria Chiesa di Sant’Eufemia.
Una volta i concerti erano tenuti dai musicisti ospiti del Festival; negli ultimi anni ha invece prevalso la politica del coinvolgimento dei conservatori, che riteniamo sostanzialmente corretta qualora il livello musicale si mantenga alto così come sono alti i prezzi del biglietto d’ingresso, fatto non sempre verificato.
Per fortuna è stato propizia la sorte per il concerto del 4 luglio, organizzato in collaborazione con il Conservatorio di Trento, che ha presentato un’inconsueta coppia strumentale: il sempiterno pianoforte, suonato dalla diciassettenne Virginia Benini, e il meno frequente fagotto del sedicenne Augusto Velio Palumbo. Il presentatore, con spiccato accento tedesco e sandali d’ordinanza, ha incoraggiato l’attenzione del pubblico sottolineando la qualità dei due musicisti, vincitori di numerosi premi e già interpreti affermati nonostante la giovane età ed evidenziando la bellezza, condivisa, del programma.
Il bel concerto in Sib maggiore RV 503 di Antonio Vivaldi è uno dei tanti brani che rendono giustizia al grande compositore veneziano, ritenuto generalmente autore solo delle Quattro Stagioni e tutt’al più del Credo e del Gloria; ma ci ha disorientato l’uso della parola ‘concerto’ adatta a situazioni in cui sia presente un’orchestra: in effetti si tratta di una riduzione per fagotto e pianoforte. Il brano è musicalmente molto bello, ma l’esecuzione ci ha lasciato qualche dubbio: la pianista teneva un ritmo incalzante, senz’altro adatto all’autore, accorgendosi poco delle esigenze fisiologiche del giovane fagottista mentre in un’orchestra, anche solo di archi, la respirazione occupa spiragli più ampi, per cui l’esecuzione ci è sembrata un po’ frettolosa.
Il secondo brano è correttamente definito sonata, la KV 292 per pianoforte e fagotto di Wolfgang Amadeus Mozart: anche in questo caso non ci ha convinto l’esecuzione sia del pianoforte, secondo noi troppo in disparte, sia del fagotto che non teneva i piano come piano ma piuttosto come mezzoforte, con una perdita di espressività importante soprattutto nelle opere mozartiane.
Ormai quasi convinti che la bravura dei due musicisti fosse piuttosto acerba, abbiamo assistito ad una metamorfosi: il giovane fagottista ha spostato il leggio prima di proporre il bel concerto di Carl Maria von Weber op. 75 adattato a sonata per due, segno del fatto che avrebbe eseguito il brano a memoria. E’ emersa improvvisamente emersa la qualità e la bravura dei due musicisti: sicurezza, espressività un’interpretazione di tutto rispetto dei due musicisti probabilmente destinati – se il buon Dio lo consentirà – ad un avvenire importante. Importante come la morbidezza del suono del fagotto, strumento di dimensioni notevoli che richiede grande maestria e duttilità oltre ad un’energia fuori del comune: se le ultime cinque battute finali hanno visto il musicista stremato e ormai vicino all’asfissia, il fatto fisiologico dopo un’ora di concerto suscita emozione e tenerezza. La sua compagna ha dato mostra di precisione e bravura dialogando nel ruolo non semplice di un’orchestra intera, che deve sostenere e controbattere senza travolgere o eclissarsi.
La quantità di applausi e di bravo ha richiamato i due giovani in scena per un piacevole bis: un’Ave Maria di Astor Piazzolla, musicalmente semplice, ma delicata e gradevole, che ha raccolto intorno ai due giovani consenso e approvazione.