Vetri rotti
Arthur Asher Miller (New York, 17 ottobre 1915 – Roxbury, 10 febbraio 2005) è stato una figura fondamentale nella letteratura, nel teatro e nel cinema del ‘900. Le sue opere più note sono Il crogiuolo, Erano tutti miei figli e soprattutto Morte di un commesso viaggiatore, studiato e rappresentato in tutto il mondo. Nacque in una famiglia di ebrei che furono benestanti prima della grande depressione: il padre produceva abiti da donna e la madre era casalinga; la sorella divenne attrice con lo pseudonimo di Joan Copeland. Arthur frequentò la scuola pubblica e all’età di otto anni scrisse la sua prima opera, un melodramma che andò in scena allo Shubert Theatre a New York.
Nel periodo della high school però Miller si distinse più nella pratica sportiva che negli studi, ottenendo un grande consenso femminile, ma venne rifiutato dall’università del Michigan in quanto ebreo: infatti negli anni trenta in tutto il mondo soffiava un vento razzista arrogante e prepotente, ma anche il nostro è periodo di ventate anomale.
L’aspetto autobiografico di Miller, emarginato in quanto ebreo, emerge negli ultimi lavori, in particolare proprio in Vetri rotti; ma Arthur dimostrò una notevole determinazione e riuscì ad essere ammesso alla Michigan l’anno successivo.
Conobbe una grande celebrità, come drammaturgo premiatissimo ma anche in virtù del matrimonio con Marilyn Monroe, seconda moglie dal 1956 al 1961. Per lei scrisse la sceneggiatura di The Misfits (Gli spostati) che fu all’origine dei dissapori e del divorzio, avvenuto qualche mese prima della morte drammatica di lei.
In terze nozze Miller sposò Inge Morath, fotografa dell’agenzia Magnum. Il grande drammaturgo si spense il 10 febbraio 2005 nel ranch di Roxbury (Connecticut) donatogli da Marilyn in occasione del divorzio. Miller amava in particolare il teatro classico greco e le opere di Henrik Ibsen. L’Università del Michigan già negli anni ottanta intitolò a suo nome un premio per la letteratura e uno per il teatro, nonché l’edificio stesso del teatro.
Vetri rotti (Broken Glass) è un testo del 1994: presenta due protagonisti principali, Phillip e Sylvia Gellburg, una coppia di ebrei di Brooklyn; la vicenda fa riferimento al 9 e 10 novembre 1938 e alla tremenda notte dei cristalli, nella quale vennero infrante le vetrine di tutti i negozi proprietà di ebrei residenti Germania, Austria e Cecoslovacchia: l’origine della definizione, più correttamente notte dei cristalli del Reich, è un dileggio drammatico fatto circolare dai nazionalsocialisti e diffuso dalla storiografia. Di questa beffa fece parte anche l’obbligo imposto alle comunità ebraiche di pulire i marciapiedi dai frammenti di vetro, rimborsare la nazione di un controvalore economico pari ai danni subiti e demolire a proprie spese le Sinagoghe danneggiate. Per tali azioni perpetrate – nelle quali morirono oltre 1300 persone – vennero processati quattro giovani che si erano resi colpevoli di stupro e perciò avevano trasgredito le leggi razziali che proibivano i rapporti sessuali con gli ebrei e i non ariani.
Il dramma inizia con l’incomprensibile malattia di Sylvia rimasta improvvisamente paralizzata alle gambe mentre legge le notizie della notte dei cristalli. Phillip, impiegato presso un ricco proprietario immobiliare, si rivolge al Dr. Hyman, medico ebreo, che ritiene il male di natura psicosomatica: pur non essendo psichiatra, Hyman comincia a scavare nel passato di Sylvia e nel matrimonio dei due. Mentre lavora a un processo di sfratto esecutivo, Phillip viene colto da infarto ed entra nell’agonia che lo porterà alla morte: chiede a Sylvia di perdonarlo, e la moglie guarisce.
Come in molti drammi di ampio respiro, in Vetri rotti si possono cogliere gli echi di lavori o miti raccolti dal mondo letterario; nel caso specifico noi vi abbiamo riconosciuto un’affinità con Il caso di Anna O. pubblicato in Studi sull’isteria di Sigmund Freud.
Ci confortano corrispondenze di fatti e di date: proprio in quel 1938 dei vetri rotti, Sigmund Freud si rifugiò a Londra per sfuggire alla cosiddetta follia nazista; la pubblicazione degli Studi sull’Isteria (1895) risale esattamente a 100 anni prima del debutto in teatro del dramma di Miller. In quella raccolta è incluso il caso clinico di Anna O. nome letterario attribuito a Bertha Pappenheim (1859 – 1936), paziente di Josef Breuer alla quale poi si interessò Freud ricavandone un importante stimolo per la nascente psicoanalisi. La giovane paziente – bella, intelligente, di grandi sensibilità e immaginazione – manifestava sintomi incomprensibili: momenti di forte allegria seguiti da profonda depressione, sfera sessuale negata, grande capacità di sognare ad occhi aperti; tra i disturbi della ragazza vi era anche quello della paralisi isterica. Joseph Breuer, medico ebreo e professore di neurologia di Sigmund Freud, iniziò a praticarle l’ipnosi: in ogni circostanza Anna provava sensazioni d’ansia incontenibile. In ragione di una vera e propria passione di transfert – diremmo noi innamoramento – fra Anna e Breuer si stava creando uno stretto legame che provocava problemi alla vita matrimoniale del medico. Del medesimo tono e con i medesimi risvolti appare in Vetri rotti la relazione tra il dottor Hyman e Sylvia, che porta l’uomo a coinvolgersi ed a coinvolgere, in un percorso di emozioni travolgenti, anche Phillip.
Facile e difficile comprendere le intenzioni nascoste dietro alla composizione del dramma: il riferimento autobiografico, cui si è fatto cenno; forse l’intento celebrativo per i cento anni del metodo psicoanalitico, la cosiddetta scienza ebraica capace di trasformare il male in bene; forse un riferimento più inconsapevole potrebbe arrivare alla vicenda della ex moglie, la straordinaria attrice rimasta per sempre immobile su di un letto, a causa della mancanza d’amore.
Per quanto possa sembrare paradossale, ci permettiamo di fare una critica all’autore: ci sembra infatti che l’ambientazione risulti fuori tempo; ovverosia i dialoghi e le situazioni, cronologicamente fissate nel 1938, ci sembrano piuttosto adatte agli anni ’50 per ciò che riguarda stilemi e dinamiche: vero è che Freud fece il suo famoso viaggio negli Stati Uniti già nel 1909, ma saremmo tentati di pensare che una conoscenza così chiara dei meccanismi psicologici espressa sulla scena dal medico generico Hyman, non potesse essere così facilmente disponibile negli anni ’30 (e nemmeno adesso)… ma l’America è il paese delle possibilità.
Abbiamo trovato la recitazione di Elena Sofia Ricci straordinaria, sia nell’esprimere la tranquilla indifferenza degli isterici (solo apparente) sia nelle esplosioni di angoscia e rabbia concitata per le violenze perpetrate da uomini in divisa contro altri uomini senza divisa e inermi, incolpevoli, nella tranquilla e colpevole indifferenza di altri uomini ancora, capaci, questi ultimi, persino di giustificare i delitti altrui compiuti a migliaia di chilometri di distanza.
Abbiamo trovato invece troppo concitata in particolare nelle prime scene la recitazione di Maurizio Donadoni (Phillip) e David Coco (dr. Harry Hyman). comunque indiscutibilmente bravi; bravi ed incisivi nei propri ruoli secondari Elisabetta Arosio (Harriet, cugina di Sylvia), Alessandro Cremona (Stanton Case, imprenditore immobiliare), Serena Amalia Mazzone (Margaret Hyman. moglie del medico).
Le scene, semplici ed efficaci di Andrea Taddei, sono costituite da un fondale con tre ante che si spalancano: le due più esterne aprono a immagini di Brooklyn, per lo studio medico di Hyman; e di Manhattan, per l’ufficio di Phillip; la parte centrale ospita il letto sul quale si muove immobile Sylvia.
I costumi di Barbara Bessi sono adeguati al periodo citato; molto belle e adatte, con una discrezione nobile e densa di atmosfere, le musiche di Stefano Mainetti che, insieme con le luci di Gaetano La Mela ben incorniciano gli eventi.
La regia di Armando Pugliese è ottima e discutibile ad un tempo.