Piccole libertà
Roma, sabato venticinque aprile
Ho ricevuto un po’ di auguri, da amici e amiche che riconoscono in questa giornata un appuntamento importate per la vita democratica; ma la parola libertà oggi si arricchisce di ulteriori significati anche in tema di virus e di pandemie.
Non saremo liberi dal virus per un po’; ma saremo virtualmente liberi tra un po’.
Quello che si vede e che si sente dire – ufficialmente – nel merito, si colloca a metà tra l’esortazione autentica e il gioco politico. Fatto salvo il rispetto dovuto alla dignità umana in generale e alla persona – intesa come singolo individuo –, che comporta il rispetto delle distanze, l’uso della mascherina e tutte le precauzioni raccomandate; comincia a sembrare demoralizzante l’insieme dei ragionamenti proposti a partire dai più alti livelli politici per finire alle telefonate di amici e conoscenti.
Innanzitutto si percepisce il bisogno di dimenticare il più in fretta possibile, magari ricorrendo al gioco dello scarica barile e le sette opere di misericordia corporale – che includono la dedica del 20 febbraio a coloro che curano il corpo – sono già nell’album dei ricordi. Lo sono anche, purtroppo, decine di migliaia di persone.
La parola solidarietà, che fino a quindici giorni fa era il motto “di noi italiani”, sta impallidendo pian piano sotto ai colpi di altri urgenti bisogni, alcuni importantissimi, altri un po’ futili: mascherine? Contatti telefonici? Perché mai?
L’immagine proverbiale del chiodo che scaccia il chiodo si viene vieppiù presentando: se nelle strade si manifesta ancora la formalità della distanza e del ballo in maschera, negli uffici privati si cominciano a deridere i comportamenti più prudenti. Come nel gioco degli incartamenti: le ultime cartelle appaiono in bella evidenza; le altre, sottostanti, restano nascoste e persino dimenticate. Troppo spesso accade che l’ultimo gesto d’affetto venga dimenticato perché si impone una intransigenza nuova; perciò, la noia unita al costo della mascherina cancellerà ben presto il momentaneo affetto e la eterea solidarietà nei confronti di chi è più fragile.
Giorni fa, sfogliando i giornali, leggevo il titolo di un editoriale che affrontava il problema dell’Io, qualcuno direbbe Ego. Non ho letto l’articolo ma voglio immaginare che ponesse come questione urgente il superamento dell’egoismo e dell’egocentrismo, capaci di sfociare nel solipsismo: passata la paura, che spinge alla solidarietà perché nessuno ce la può fare da solo, si preferisce dimenticare.
I poeti lo sanno; ce lo ricordano i musicisti. Mi fa piacere citare una bella canzone di Giorgio Gaber Barbera e Champagne, 1972: racconta la profonda solidarietà – di una notte – tra due persone disperate per amore, che si aiutano dimentiche della propria condizione economica e sociale, di fronte ad uno stesso dolore. Il dolore è uno solo affermava Umberto Saba guardando una capra dal viso semita.
Ma gli uomini vogliono dimenticare: al sorgere del sole le differenze sociali tornano ad essere prevalenti e chi beve barbera non dividerà il proprio destino con chi compera champagne.
Questa breve pagina non può che sfociare in una retorica amara: rimane la piccola speranza delle identificazioni per poter evadere dall’Io, dall’egoismo, dal solipsismo. I bambini lo sanno, gli adolescenti forse ancora.