Bucatini all’amatriciana
Roma quattro maggio lunedì, ritorno al lavoro
In realtà non è vero; non sono tornato al lavoro perché in studio ci sono sempre andato, essendo la mia categoria una di quelle che non ha subito interruzioni. Però è vero che, viste le lunghe attese per i tanti altri, anche a me oggi è sembrato proprio un ritorno al lavoro.
Allora: siamo usciti al mattino io e mia moglie, a debita distanza – cosa che in genere i coniugi fanno, salvo rare eccezioni –; uno avanti, l’altro dietro: innanzitutto a gettare i rifiuti, poi a comperare un regalo di compleanno nei negozi consentiti; che sono pochi e gioiscono per quanto sia possibile. Prima di recarmi in studio, rigorosamente a piedi – ma anche questa è prassi consolidata da anni –, abbiamo deciso di prenotare la cena dal nostro amico Sisto, bravissimo ristoratore il cui ristorante ha riaperto oggi solo per asporto; sta in via Tolemaide, vicino ai Musei Vaticani luogo di sogno e di realtà, almeno per me.
Abbiamo trovato Sisto, insieme alle due figlie e aiutanti Silvia e Sara, dietro ad un tavolo messo a bella posta per sbarrare l’ingresso, ma consentire il dialogo: noi con le mascherine, loro con le mascherine. Abbiamo prenotato alici fritte, gnocchi al tartufo e costolette d’abbacchio; le nostre tradizioni. Sono poi andato in studio. Per inciso Sisto fa i migliori bucatini all’amatriciana della città di Roma
Anche in studio c’era un po’ l’aria del disgelo, come nei film russi degli anni ’70 quando la musica piacevole e le immagini dei fiumi con le lastre di ghiaccio, che scorrono via, fornivano quegli elementi simbolici. A dispetto dell’assenza di quasi tutti i componenti lo staff, rigorosamente presi dallo smart working – beati loro, e lo dico con ironia – i pochi presenti, che godevano della disponibilità di circa 100mq a individuo, hanno incominciato a progettare i prossimi passi: primo l’igienizzazione; secondo, la definizione dei flussi in ingresso e in uscita; terzo, l’acquisto di un congruo numero di gel per le mani.
Tutti felici e contenti, o quasi, abbiamo lavorato pensando sia al presente sia al futuro.
Intorno alle diciannove e trenta ho preso “le mie povere cose” e mi sono avviato verso casa, con l’impegno di andare a ritirare la cena preparata da Sisto, Silvia e Sara.
Il ritorno è stato meno sereno dell’andata. Tante persone camminavano per i marciapiedi mano nella mano, a coppie o intere famiglie – i più intraprendenti sono gli stranieri perché pare circoli la voce, nei loro paesi, che il virus italiano non aggredisca chi parla altre lingue –; molti senza mascherina, tenuta in mano come un amuleto, lo dico raccogliendo una felice espressione letta su un quotidiano; moltissimi incuranti della presenza altrui. Pare che il distanziamento sia inteso, da molti, come equivalente al disinteresse.
Un signore era così tanto incurante degli altri da tirar fuori i gioielli dai pantaloni per far pipì contro un cassone dell’immondizia. Per non sembrare imbarazzato l’ho guardato con la coda dell’occhio, convinto che fosse un “anziano”: si sa che gli anziani hanno problemi di prostata e di incontinenza urinaria e celebrale. Dopo essere passato oltre mi sono girato a guardare, recitando l’intenzione di dover attraversare la strada e… non era un signore anziano – viva gli anziani! – ma piuttosto un “bel giovane” aitante e maleducato e sprezzante come, pare, debbano essere i giovani ora.
Mi era venuta voglia di denunciarlo come untore… avrei fatto ridere.
Mi è già capitato una volta di aver fatto ridere: tornavo in macchia a casa, di sera, in una bellissima strada tra porta San Pancrazio e piazza San Pietro: via delle Fornaci. C’era un posto di blocco, era il periodo degli attentati in Europa. Un’automobile mi sorpassò a gran velocità ma, visto il posto di blocco, imboccò una strada contromano e scomparve. Il mio senso civico – o di spia che non è figlia di Maria e non è figlia di Gesù – mi indusse a fermarmi per denunciare il fatto: il poliziotto municipale mi guardò, con l’aria di chi la sa lunga, e mi disse vada, vada… perciò, memore della questione, ho lasciato correre; sentendomi in colpa anche in questo caso.
Insomma, piuttosto deluso di me e dei miei simili sono arrivato al ristorante per prelevare i miei pacchetti: e c’erano Sisto, Silvia e Sara tutti affaccendati, dietro al tavolino a sigillare i cibi caldi della mia cena. Quest’immagine era bella: come il tavolinetto di Lucy che fa la psicologa o la chiromante e di Charlie Brown che vende un bicchiere di limonata per un cent. Grazie a loro mi son sentito di nuovo ragazzino o adolescente; cioè speranzoso della vita.