L’attesa
Dopo tanti mesi, siamo – finalmente! – tornati a teatro.
È vero che i teatri hanno riaperto e sono agibili da tempo ma, a causa del lavoro – e del fatto che nella mia città di Roma i teatri tendano a chiudere piuttosto che a riaprire – siamo tornati ad assistere ad uno spettacolo di prosa solo ora. Ma prima di parlare di ciò che abbiamo visto, dobbiamo però affermare, sconsolati, che Roma è una città quasi desolata: chiuso il Valle; chiuso l’Eliseo; chiuso il Piccolo Eliseo; chiuso il Centrale; chiuso il Della Cometa; il Flaiano ormai auditorium in affitto, come pure il Santa Chiara, il Delle Arti non esiste da tempo, il Dell’Angelo pure… e così via.
Forse anche per questo, l’allestimento del bello spettacolo che siamo andati a vedere era realizzato nella Sala Petrassi del Parco della Musica, che teatro non è. Siamo arrivati nella grande struttura trenta minuti prima dell’inizio e persino il Parco della Musica, di martedì sera, sembrava abbandonato alla malinconia: poche persone camminavano nell’aria umida debolmente illuminata: saranno i venti di guerra? Non credo. La desolazione delle chiusure è iniziata ben prima della clausura da covid19.
Abbiamo preso un aperitivo nel bar, enorme, tra sparuti ospiti stravaganti dall’aria disadattata; siamo entrati nella sala, ancora vuota a soli dieci minuti dall’inizio. Per fortuna, c’è stata un’improvvisa affluenza di spettatori – evidentemente più abituati di noi alle attuali frequenze – che sapevano l’inutilità della fretta. Una volta, garantirsi qualche minuto di anticipo rendeva tranquilli di non mancare l’apertura del sipario; adesso è lo spettacolo che si premunisce di non perdere gli spettatori.
In scena, per la prima volta insieme, Anna Foglietta e Paola Minaccioni sono protagoniste di L’attesa, di Remo Binosi, per la regia di Michela Cescon. Il testo ha reso famoso l’autore veneto e ha ottenuto il «Biglietto d’oro Agis» come migliore novità italiana del 1994, nella produzione di Teatro Due di Parma con Maddalena Crippa ed Elisabetta Pozzi, attrici straordinarie. Nel 2000 il testo è diventato film: Rosa e Cornelia diretto da Giorgio Treves.
Le due attrici danno corpo e anima alla giovane e nobile Cornelia e alla serva Rosa, rinchiuse in una villa dell’entroterra di Venezia per nascondere due gravidanze non desiderate. Il racconto è ambientato nel ‘700 per rendere credibile – e quindi attuale – una riflessione sui corpi femminili, sul desiderio, sulla sopraffazione del più debole, sulla gestazione, sull’amore, sul piacere, sulla lealtà, e sulle differenze di identità sessuale e di classe sociale.
Negli anni ’90 Maddalena Crippa e Elisabetta Pozzi erano certamente due attrici giovani amate dal pubblico e stimate dalla critica; attualmente Anna Foglietta e Paola Minaccioni sono molto amate dal pubblico e si confrontano, animate da un certo coraggio, con un testo di grande forza drammatica.
L’attesa di un evento inizialmente temuto; poi desiderato per la fine della clausura; infine incredibilmente apprezzato contro ogni aspettativa – l’evento della vita – illumina ed oscura qualsiasi altro fatto: il rapporto serva-padrona, l’altro percepito come doppio al negativo, la sensualità, la lusinga, l’omosessualità, la maternità, l’oscura e profonda attrattiva del male sono raccontati con frequenti cambi del registro narrativo che sfiora la commedia e precipita nel dramma, per annullarsi infine nella frivola tragedia della vita e nella condanna al rimorso. Il linguaggio originale mostra una vis comica di sicura presa, che prepara un disvelamento perturbante.
Cornelia è rimasta incinta per un rapporto occasionale, profondo di desiderio e fugace, avuto nella sera del Carnevale con il Grande Seduttore Giacomo Casanova, tanto intenso da sembrare il contenuto di un sogno. Rosa è incinta a causa di un rapporto visceralmente desiderato e cercato con l’ospite affascinante di una locanda veneziana, al culmine di una settimana di concupiscenze e di rifiuti. Il racconto di Cornelia è velato, come l’interno della gondola sulla quale è stato consumato; il racconto di Rosa è crudo, sensuale, esplicito nelle parole e nei gesti, precisi ed evocativi. Il seduttore di Rosa è il medesimo Giacomo Casanova, vessillo di sensualità priva di pudore ma, anche, simbolo fallico e strumento di piacere.
Il destino simile delle due donne, però, non è una semplice punizione ma nasconde un ntento spregiudicato: la giovane Cornelia è promessa in sposa al Duca di Francia e, secondo contratto, deve arrivare vergine alle nozze. Quindi Rosa non solo la deve assistere ma, anche, controllare il rigore della clausura e infine soffocare il nascituro, affinché nessuno sappia: è stata scelta come serva, come assassina e come doppio della sua padrona perché, essendo incinta, nessuno si possa sorprendere nel vedere un neonato. La convivenza tra le due è sorprendente: si affezionano e, nel confrontare le proprie esperienze, l’amicizia si forma e poi l’amore e anche la passione dell’amore, resa esplicita da un bacio. La nascita dei bambini – una femmina, apparente figlia di Rosa e un maschio, apparente figlio di Cornelia – è orgasmo simultaneo.
Esaurita l’attesa, il dramma si compie: Rosa, innamorata e amante, sceglie di uccidere la propria figlia e salvare il figlio di Cornelia per allevarlo come dono dell’amore di lei. Cornelia, silenziosa e immobile durante l’esecuzione dell’infanticidio, assiste al crollo e poi allo svenimento dell’altra e svela al pubblico il suo piano oscuro: l’aver scambiato i figli, per salvare la propria creatura a danno dell’altra, ha portato a compimento un destino segnato sin dall’inizio. L’azione si conclude con l’aprirsi della porta che segnala l’arrivo dei genitori di Cornelia; la giovane, ufficialmente vergine, torna al suo ruolo di promessa sposa del Duca di Francia.
Molti commenti si possono fare in merito al testo ed alla sua messa in scena. Aver spostato la trama nella Venezia del ‘700, consente certamente di riflettere meglio: il grande seduttore è, innanzitutto, il grande sedotto, l’uomo oggetto, anche se il nostro politically correct dovrebbe spingerci a dichiarare altro. La catena delle sopraffazioni inizia dai genitori di Cornelia, passa da lei alla serva Rosa e da costei ai due bambini, sacrificati al Duca di Francia, cioè alla logica del potere, come se la vita – e la sessualità – non possano mai pretendere un altro percorso. L’amore, che forse si esprime più consapevolmente attraverso l’omosessualità, potrebbe cambiare l’ordine delle cose ma, si sa, è troppo rivoluzionario e le rivoluzioni costano troppo. Meglio è uccidere, fingendo che sia necessario oppure inevitabile.
Molto convincente e applaudita è stata la prova di Paola Minaccioni, immersa nel dialetto veneziano al quale abbiamo abituato l’orecchio da anni di frequentazione della Laguna; e ci ha stupito e coinvolto la sua capacità di alternare la visione comica a quella drammatica. La bella presenza di Anna Foglietta è stata valida nel rendere l’atteggiamento aristocratico: inizialmente un po’ incerto, poi più sciolto fino al finale praticamente perfetto. Apprezzata la regia, di Michela Cescon, che non ha avuto paura di affrontare i temi difficili dell’omosessualità e dell’aborto/infanticidio, sottraendosi alla retorica così come chiede il testo coraggioso di Binosi. Interessante la scenografia adattata allo spazio scarno e severeo dell’auditorium – un letto con due sedie – di Dario Gessati aiutata necessariamente dal disegno luci di Pasquale Mari, dai costumi di Giovanna Buzzi e dai suoni di Piergiorgio De Luca.