Un caso del genere
La mia professione è la psicoterapia.
Spesso, tra un racconto ed un altro della propria esperienza di vita, i pazienti che si sentono un po’ in intimità con me, per la durata del trattamento o per avere letto qualcosa di mio, mi propongono questioni estranee alla terapia almeno in apparenza: si può trattare di un film di cui si parla, di un libro premiato o di un fatto di cronaca particolarmente rilevante.
Nella scorsa settimana è accaduto che una persona mi abbia posto la questione di un fatto di cronaca emerso con vigore: la sentenza del Tribunale nei confronti di Filippo Turetta. In particolare, segnalava il proprio turbamento di fronte alla violenza dell’opinione pubblica che si era scatenata nei confronti dei giudici – colpevoli di non aver riconosciuto alcune aggravanti nel crimine –; e nei confronti dell’avvocato difensore per il fatto di avere accettato la difesa del “mostro”.
Per quanto riguarda l’eccesso di violenza dell’opinione pubblica, la risposta è sin troppo semplice: si tratta di un meccanismo di diniego. Il “buon senso comune” rifiuta di includere tra i propri figli l’autore di un crimine così efferato, immaginando di potersi liberare la coscienza da un insieme di responsabilità sociali, che sono dinanzi agli occhi di tutti: si chiede di appesantire le pene, per annichilire il colpevole al fine di restaurare il “regno del bene”; oppure ci si pronuncia in dichiarazioni politiche insensate che attribuiscono tutti i crimini peggiori a una presenza troppo massiccia di immigrati(!). (Il ricorso alla violenza è uno dei mali sociali: ad esempio le grandi partite di calcio rispondono a questa esigenza… ma tralascio il discorso che porterebbe troppo lontano)
Molto interessante è l’osservazione a riguardo degli insulti contro l’avvocato difensore: mi ha fatto tornare alla mente la tragedia di Antigone (Sofocle, 442 a.C.). Di che cosa si trattava? Antigone, figlia di Edipo, aveva deciso di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, contro la volontà del nuovo re di Tebe, Creonte. Il re lo aveva vietato: Polinice era morto assediando la città di Tebe, comportandosi come nemico e uccidendo il fratello Eteocle perciò il suo corpo sarebbe dovuto rimanere esposto in preda agli uccelli e alle fiere. Antigone venne condannata alla sepoltura in una grotta.
L’avvocato difensore di Turetta, Giovanni Caruso, ha ricevuto dall’opinione pubblica un trattamento simile a quello riservato ad Antigone: è stato seppellito dagli insulti. Secondo molti, i criminali dovrebbero essere trattati come “non umani” e chi li difende, come traditore della società. Il motivo? Lo stesso di cui sopra: il diniego, l’eccesso di violenza, la volontà – o il bisogno – di comportarsi come “sepolcri imbiancati”… questo, si sa, è un fenomeno sociale; a livello individuale, per fortuna, ci si può anche distinguere.
Ma altri particolari, in un caso del genere, incuriosiscono ancora di più: non c’è stata richiesta di una perizia psichiatrica quindi, almeno in apparenza, non c’è stata la ricerca di una riduzione di pena; questo, perché Turetta ha dichiarato di non sentirsi pazzo e di voler pagare interamente per il male commesso. La posizione sembra interessante, una furbizia partorita tra coscienza e inconscio, suggerisce l’istinto dello psicoterapeuta.
Spinto da queste riflessioni mi addentro in un tentativo impervio: attribuire un senso del tutto personale al pensiero dell’assassino, ora imputato, che – sia chiaro – non conosco e non ho studiato. Perciò, andando avanti nel discorso, evito di utilizzare il nome di quella persona, che diviene oggetto di una costruzione mentale.
Mi ha colto di sorpresa l’impressione di una forte differenza tra l’espressione del volto dell’imputato, colta cinque giorni fa dal videogiornale, e quella dell’assassino vista in molte foto in precedenza. Innanzitutto, l’imputato sembra un po’ più in carne, a distanza di un anno; mostra un volto più “virile” di quello dell’assassino: le emozioni si saranno sedimentate, il lavoro psicologico avrà avuto efficacia; però mi è sembrato una persona un po’ diversa.
L’assassino ha dato 75 coltellate alla vittima; ha seguitato ad accoltellarla anche dopo che ella era morta. Il medico legale, per quanto possa avere senso, ha definito il limite vitale alla ventinovesima coltellata… credo che non abbia alcun valore tale affermazione e nemmeno il numero preciso dei colpi, se non stabilire l’elemento della ferocia e del rancore cieco. Il rancore si coglie anche in un’affermazione – indecente – fatta dall’assassino: voler che la vittima provasse il suo stesso dolore.
Qual era quel dolore? Sembra inappropriato e incommensurabile il confronto tra un dolore fisico ed un dolore psichico… a meno che non si immagini lo stesso dolore fisico ancor più drammatizzato dalla sensazione dell’impotenza, dell’essere in balia dell’altro, senza nessuna possibile difesa. Allora se il rancore – dal quale scaturisce la vendetta – consiste in questo, il dolore psichico deriva dal sentimento dell’invidia e dal senso di impotenza che ne scaturisce. La furia dell’assassino era, forse quindi, il risultato di un’invidia furiosa e del sentimento rabbioso dell’impotenza. Non era questa la condizione di Caino? I sentimenti di Caino sono molto comuni e fanno parte della mitologia solo in apparenza.
Qualcuno potrebbe affermare, che nella mente di questo assassino, ci fossero questioni di sesso ma, in effetti, nei suoi discorsi non pare facesse propriamente riferimenti sessuali; piuttosto lamentele insulse, invidiose ed impotenti; il piagnisteo dei non lasciarmi…
A non percepire il dolore dell’altro come si fa? Persino l’egoismo è insufficiente…
L’aspetto dell’assassino, dalle fotografie o dalle immagini, sembrava confermare questa diagnosi; invece, l’aspetto dell’imputato attuale non corrisponde più, anzi esprime una qualche dignità: la stessa del non riconoscersi pazzo e del dichiararsi cosciente di dover pagare con una pena coerente.
Lo psicoterapeuta interviene per dire che mai nessun pazzo si riconosce tale… per cui la perizia psichiatrica, probabilmente, sarebbe stata necessaria. Il non chiederla è stato, forse, elemento di furbizia profonda: cercare dignità, attraverso l’ammissione di “essere stato” (!) l’individuo che ha ferito e ucciso. Il gesto che definisco furbizia realmente può avere modificato qualcosa della personalità? Sembrerebbe così, almeno alle apparenze: l’imputato somiglia all’assassino, ma non sembra più identico a “quell’assassino”. Ha chiesto di pagare e pagherà.
Ma lo psicoterapeuta che scrive è, anche, inorridito per il fatto che un essere umano, al fine di uscire dalla propria melma fatta d’invidia e di senso di impotenza, debba calpestare il corpo dell’altro… inorridisco per tutti, assassini e haters.
La pena è necessaria: l’ergastolo è necessario? In alcuni casi forse sì.
Il termine ergastolo, come pena senza fine, viene dalla lingua latina: ergastulum era un edificio sotterraneo per l’abitazione degli schiavi o dei condannati adibiti ai lavori agricoli. In Italia, la disciplina dell’ergastolo dopo 10 anni rende possibile ricevere permessi premio, che consentono di uscire dal carcere alcuni giorni, per la durata massima di 15. Dopo 10 anni di pena diviene possibile, inoltre, lavorare fuori dal carcere, purché sotto vigilanza o in condizioni appropriate. Infine, dopo 26 anni di pena effettiva scontata, si può ottenere la libertà condizionale a fronte di una condotta irreprensibile: inoltre, la pena può essere ridotta di 45 giorni ogni sei mesi di reclusione e in questo modo gli anni da attendere prima della libertà condizionale possono essere anche solo 21 e non 26.
Perciò la pena dell’ergastolo ha un significato principalmente simbolico, anche se la reclusione è reale.
La pena è necessaria: per chi? Per la famiglia della vittima, per l’assassino oppure per la società che è stata ferita?
Lo psicoterapeuta si sente di affermare che, in questa specifica situazione la pena dell’ergastolo è necessaria per l’assassino, per la sua dignità umana. Questo assassino senza una pena adeguata smetterebbe di esistere, sarebbe un morto; solo la pena gli può concedere la possibilità di sopravvivere dignitosamente, di liberarsi forse dalla melma dell’invidia e dell’impotenza.
Mi auguro che gli haters che si scagliano contro tutto e tutti abbiano, a loro volta, la possibilità di fare lo stesso: liberarsi dalla propria melma.