Direttore Michele Spotti – Regia Damiano Michieletto
Damiano Michieletto è riuscito nell’impossibile intento di rendere noioso Il Flauto Magico di Mozart; in questo, è stato ben coadiuvato dal direttore Michele Spotti; non lo avrei mai creduto.
A sipario aperto, la sceongrafia si presenta come un’aula scolastica longitudinale, con una lunga lavagna e una porta a sinistra; un banco di scuola anni ottanta; un armadietto sulla quinta di destra; un finestrone sulla quinta di sinistra: ambiente scolastico, potenzialmente interessante. Salito sul podio il direttore, è iniziata l’ouverture: un po’ moscia. Intanto, sulla lavagna appariva un po’ di tutto: formule, scheletri, scritte… Entrava in scena un tipo alto, capelli un po’ lunghi, aria da professore, che fingeva anche lui di scrivere qualcosa: quest’azione andava avanti per tutta l’ouverture, sempre un po’ moscia.
Entrava Tamino, ragazzotto con i pantaloni al ginocchio e la giacca da liceale: sembrava la prima incongruenza, perché il costume di scena spingeva l’ambientazione indietro, agli anni sessanta direi. Lo studentello veniva subito beccato dal professore; fatto sedere al banco gli dava esercizi da risolvere, una specie di punizione. Uscito il professore, Tamino molto agitato andava verso la lavagna dalla quale scomparivano formule e schemi e si animava una figura di serpente/drago: idea interessante, perché l’elemento terrifico ciascuno lo porta dentro di sé, ed esso può anche essere il terrore di non farcela nello studio. Tamino è svenuto, come da copione, e sono entrate tre suore invece delle tre dame: eravamo, perciò, in una scuola tenuta da suore. Le tre facevano la loro parte di ammirazione e seduzione: ci può stare; chi non ha fantasticato di amoreggiare con la suora? Ricordo ancora il nome di quella che piaceva tanto a me, diciottenne.
A questo punto ho immaginato che la Regina della Notte dovesse essere la Madre Superiora, fatto poco convincente: ma la potente e drammatica figura è stata invece proposta nei panni di una casalinga sull’orlo della crisi di nervi. Appariva in una stanza nascosta dietro alla lavagna, che è scorsa via al momento giusto, lasciando intravvedere un letto, sul quale era poggiato l’orsacchiotto; un comodino sulla destra, sul quale c’era una brocchetta d’acqua e qualche altra cosa così, da comodino. Insomma, la Regina della notte, casalinga in abiti anni sessanta, gonna sotto al ginocchio, eradecisamente nevrotica e lamentava la scomparsa della figlia Pamina… da qui in avanti si è reso palese il delirio: non erano giustificabili le suore/dame; sarebbero state coerenti altre casalinghe in preda a crisi di nervi. Ma soprattutto, perché la signora Astrifiammante avrebbe dovuto chiedere allo studente Tamino di riportarle la figlia? La quale era, ovviamente, vestita da collegiale anni sessanta pure lei: forse erano compagni di scuola oppure fidanzatini.
La follia registica è apparsa scatenata e ne riassumo gli aspetti salienti: Papageno era il bidello della scuola che ramazzava l’aula e non si capisce cosa avesse a che fare con gli uccelli che apparivano dalla lavagna magica; Monostatos non era nero – immagino per correttezza politica – ma aveva i capelli rossi come Jannik Sinner, era grasso e faceva atti di bullismo spalleggiato da altri grassottelli. Il politicamente corretto – a quanto pare – non consente di associare il colore nero al comportamento violento, ma ammette che grasso è brutto e bullo.
Papageno, nei panni incolori di bidello triste e povero, era moscio e senza energia; c’era poco da ridere, anzi intristiva. I saggi del Tempio, comandati da Sarastro, sembravano i frequentatori del Circolo Anziani del Quartiere: uno stava sulla sedia a rotelle e la cosa, per quanto politicamente corretta, ci è sembrata di cattivo gusto, a meno che il cantante non fosse paraplegico davvero, nel qual caso sarebbe stato invece apprezzabile. Flauto Magico e Glockenspiel erano oggetti insignificanti e avevano perso la forza magica, forse per il fatto di venire recapitati in pacchi di posta celere dai tre bambini, che non erano affatto bambini ma ragazze con poca voce.
Si capisce che il Tempio non aveva la “T” maiuscola, ma piuttosto era un edificio scolastico immaginabile come tempio della cultura. Tutto il politicamente corretto vacillava tristemente quando Sarastro cantava che Astrifiammante fosse “solo una donna” perciò non bisognasse darle credito; oppure quando Monostatos, volendo baciare Pamina svenuta e allungando le mani, cantava che “bianco è bello”. Le prove alle quali venivano sottoposti Tamino e Papageno sembrano insensate in modo delirante: cosa dovrebbe avere a che fare un collegiale diciottenne con Iside e Osiride? E soprattutto perché dovrebbe sfidare i pericoli dell’acqua, del fuoco e tutto il resto per essere accolto nel Circolo degli Anziani?
L’incontro tra Papageno e Papagena è stato delittuoso: lei, aiutante bidella, ramazzava a sua volta; non brutta all’apparire, non bella nella trasformazione, visto che rimaneva tale e quale vestita da bidella e cambiata solo di postura: da curva a dritta. La scena finale raggiungeva l’apice del delirio: la casalinga sull’orlo di nervi, le tre suore e il ciccione dai capelli rossi erano penetrati nei sotterranei del tempio del sapere – la solita stanza nascosta dietro alla lavagna – con l’intenzione di provocarne il crollo, ma venivano affrontati e sconfitti da Sarastro e dal Circolo Anziani. I cattivi avrebbero dovuto sprofondare negli inferi, ma il politicamente corretto ha trionfato: le donne svenivano e si adagiavano mollemente nella stanza dell’orsacchiotto, nascosta poi dalla lavagna; invece Monostantos, vestito da collegiale, veniva preso per l’orecchio dal professore e portato al banco per svolgere i compiti che aveva trascurato. Ci è venuta in mente una pubblicità – politicamente corretta – dell’altro secolo: non esistono bambini cattivi, ma solo indisposti!
Quando qualcosa non piace se ne cercano tutti i difetti, e ammetto il sadismo segnalando alcuni incidenti di percorso. La Regina della Notte casalinga nevrotica, prima di iniziare la famosa aria meravigliosa e acutissima, doveva giustificare la sua alzata di tono con una vera crisi psicotica: la pensata registica è stata di farle ingoiare un po’ di pillole, psicofarmaci I suppose, con un bicchiere d’acqua preso dal comodino; però, il senso del ridicolo o la fatica della posizione non le hanno lasciato la tranquillità e ha perso l’intonazione nelle note acute; immediatamente dopo, l’aria di Sarastro con le sue note bassissime bellissime, si è persa ritmicamente e il cantante ha attaccato troppo presto anticipando la musica – sempre abbastanza fiacchetta e un po’ lenta – ma era bravo nel recuperare il tempo giusto senza dare nell’occhio.
Altri due incidenti voglio segnalare e una lamentela finale: Tamino ha tentato di uccidere Pamina e Papageno ha tentato di uccidere Papagena. Entrambi gli incidenti sono accaduti nei momenti di concitazione: Tamino e Pamina, dopo la separazione, le prove fisiche e morali, si trovano a correre ma la macchina del fumo ne ha sputato tanto che la polvere si è depositata sul palcoscenico: la soprano, tirata per la mano, è caduta in gionocchio e secondo me si è fatta anche male. Subito dopo, Papageno ha finalmente riconosciuto la bella Papagena e correva tenedola per mano; per lo stesso motivo, anche lei è inciampata rischiando di cadere:’ ma, per fortuna ha salvato l’equilibrio… Lamentela: ma a che serve tanto fumo in una situazione così priva di senso? molti spettatori erano d’accordo con me; soprattutto tossivano.
Eppure l’idea della scuola avrebbe potuto essere sfruttata meglio, ad esempio con un sogno di Tamino, all’interno del quale la favola del Flauto Mgico avrebbe potutoessere svilppata con i costumi e le scene approrpiare. I sogni lo consentono con buon pace delpoliticamente corretto.
Qualche brevissimo giudizio di merito.
Della regia abbiamo detto. La direzione d’orchestra è stata sempre molle e il direttore tirava indietro forse per qualche disagio degli interpreti. Le voci di Tamino e Pamina erano gradevoli; buona la vocalità di Papageno, ma ingiudicabile l’interpretazione resa noiosa dal contesto; scattante come si deve Papagena, ma mortificata dal costume di scena. La Regina della Notte ha avuto difficoltà nell’intonazione delle note acute che tendeva a rallentare tirando indietro l’orchestra; la vocalità di Sarastro vacillava nelle note basse; le tre dame erano vocalmente piacevoli; i tre fanciulli/fanciulle troppo esili, quasi al limite dell’udibile. Ma, in tutto questo, credo abbia influito sugli spettatori la scarsa partecipazione emotiva causata da scenografia e regia.
Però andare a teatro è sempre bello: alcune belle dame in gran decoltée attendevano i loro cavalieri oppure postavano foto su Istagram; molte belle coppie attempate mostravano i piacere dell’esserci e il dispiacere di avere meno di quanto desiderato.