Chef
Jacky (Michaël Youn) è un cuoco dai gusti raffinatissimi il cui difetto è, però, di essere l’unico a saperlo. Formatosi “solo” sui libri di cucina e sulle trasmissioni televisive di Alexandre Lagarde (Jean Reno) ed assolutamente sconosciuto, è costretto a cercare lavoro in taverne e bistrot parigini dove i clienti consumano frettolosamente i “soliti piatti”. Dopo l’ennesimo licenziamento, trova un impiego da imbianchino in una casa di riposo, per le insistenze della compagna (Raphaëlle Agogué), decisa, incinta e prossima al parto.
La sua attitudine per la grande cucina lo porta a intromettersi continuamente nelle ricette per gli anziani, tanto da attirare l’attenzione del mecenate della casa di riposo (Pierre Vernier), proprietario della Maison Lagarde, il ristorante del famosissimo chef e padre del giovane manager che vorrebbe trasformarlo per favorire la cucina “molecolare” costosissima e à la page. Oppresso dall’imprenditore che gli allontana i collaboratori, Lagarde offre a Jacky l’opportunità di lavorare al suo fianco per continuare a far brillare le stelle del suo gourmet.
Le avventure e disavventure, amorose e caratteriali, della coppia di chef condiscono la storia che, ovviamente, deve avere un lieto fine, anzi lietissimo: i buoni vincono, i cattivi vengono puniti in modo esemplare – ma si potranno redimere – ed i protagonisti vivranno felici e contenti. Nonostante l’ovvietà della trama, si gustano siparietti divertenti e quasi si riescono a percepire gli aromi di una cucina straordinaria (almeno nella narrazione). Il film, con la garbata e professionale regia di Daniel Cohen, si giova delle musiche di Nicola Piovani di cui non ricordiamo neanche una nota del più semplice motivo: in questo caso si può dire che la musica non disturba.
Abbiamo passato senz’altro novanta minuti divertenti, facendo anche, come spesso desideriamo, qualche riflessione. La prima è che film del genere possono essere prodotti solo in Francia: i bistrot, tanto derisi nel film, promuovono piatti che fanno leccare i baffi e gli avventori dei grandi ristoranti parigini sono spesso consapevoli di ciò che mangiano e riconoscono i sapori anche nelle sfumature. Purtroppo non si può dire che avvenga altrettanto qui da noi: manteniamo il mito della cucina della nonna che poteva essere abbastanza buona; sicuramente migliore di quella della mamma e certamente molto migliore di quella della compagna – ragionamento che fila anche al maschile – e le “migliori” fantasie che riusciamo a permetterci sono quelle di ricette rapidissime “cotte e mangiate”. Tanto di cappello alla cultura e alla pazienza culinaria francesce.
Tuttavia vale la pena ricordare che la cucina francese ha avuto un impulso fortissimo nel XV e XVI secolo quando assimilò diversi prodotti provenienti dal nuovo mondo, ma soprattutto ebbe una svolta che la portò a essere la più grande cucina del mondo grazie a Caterina De’ Medici, Duchessa d’Urbino andata in sposa ad Enrico II Re di Francia (1533). Caterina fu una grande appassionata di cucina e portò con sé in Francia la grande scuola della cucina toscana, all’epoca molto raffinata. Come tutti i grandi chef da allora in poi, Caterina andava personalmente a comprare i prodotti necessari alla sua cucina ai mercati dove era diventata famosa come “La dame de Cordon Bleu” visto che indossava una fascia blu, essendo, oltre che la Regina di Francia, anche Ambasciatrice del Granducato di Toscana. La passione culinaria le fece fondare una scuola di cucina, tuttora attiva, nota come la scuola di “Cordon Bleu”: attraverso di essa Caterina introdusse nella cucina francese la sequenza dei piatti (separando il dolce dal salato), l’uso delle posate e l’accoppiamento dei sapori delicati dei prodotti freschi, le verdure in particolare.
È un grande dispiacere che una parte importante della cultura, musicale, letteraria, teatrale, figurativa, culinaria vada scomparendo a vantaggio di novità che non si comprendono ma consentono di fare bella figura con gli amici e assicurano un’identità partecipe al gran mucchio: naturalmente ognuno di noi resta convinto di sapersi distinguere grazie ad un particolare tatuaggio; ad un insieme di oggetti e abitudini collezionati attraverso i media e la pretesa di una personale originalità (che non esiste praticamente mai).
Ammassati su di una navicella spaziale ormai piccola, che viaggia verso un destino ignoto, abbiamo quasi del tutto bandito il piacere – confuso in un banale consumismo –; ed il desiderio – barattato per un conto in banca –; per questo, insieme al mio maestro, mi associo nel dire che amo la cucina francese e la musica di Mozart (e tante altre cose ancora…).
pietro de santis