Arlecchino servitore di due padroni
Carlo Goldoni (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio 1793) scrisse questo testo nel 1746, in un periodo in cui esercitava la professione di avvocato a Pisa, su richiesta di un famoso attore italiano, Sacchi, che gli proponeva anche un tema per l’intreccio: servire due padroni. Sacchi era conosciuto in tutta Europa come comico, con il nome d’arte di Truffaldino, il personaggio della Commedia dell’Arte che interpretava. Goldoni, nello scrivere il primo canovaccio, probabilmente si ispirò ad “Arlequin valet de deux maîtres”, testo firmato da Mandajor (Jean-Pierre des Ours de Mandajors: Alès, cittadina non lontanissima da Avignone, 24 giugno 1679 – Parigi, 15 novembre 1747). Sacchi portò in scena l‘opera, riscuotendo un notevole successo; in seguito, però, altri comici di minore levatura interpretarono la commedia snaturandone le proposte, fatto che spinse Goldoni a trasformare il canovaccio in un testo con tutte le parti scritte. Quest’innovazione consacrò l’inizio dell’opera drammaturgica goldoniana, i cui testi furono interamente scritti e non più lasciati all’improvvisazione tipica della commedia dell’arte.Il teatro di Goldoni rivolge le proprie attenzioni ai vizi, che vuole colpire e correggere, e alle virtù da mettere in risalto: ogni testo contiene una morale e assume un ruolo pedagogico sui caratteri, che attinge dal mondo attraverso riferimenti, spunti, allusioni e richiami alla vita quotidiana. Nell’opera goldoniana viene rappresentata la vita della Venezia e dell’Italia contemporanea, in un realismo moderno e affascinato: la borghesia recita il ruolo centrale tra le varie classi sociali tanto che la maschera di Pantalone diviene espressione delle buone qualità del mercante veneziano. I nobili appaiono invece senza valori mentre i servitori, nella schematicità ereditata dalla commedia dell’arte, emergono grazie ad una intelligenza pratica, aguzzata per soddisfare i bisogni più elementari.
Nella storia del teatro – forse grazie a Goldoni e a Sacchi – sono rimaste intatte due tradizioni legate alla commedia dell’arte: quella degli “intrecci” e quella degli interpreti “consacrati” al ruolo. Uno dei più importanti arlecchini della storia del teatro fu proprio Antonio Sacchi (o Sacco; 1708 – 1788): l’ultimo grande Arlecchino della Commedia dell’Arte. Come sostituto di Sacco in Italia, e di Bertinazzi (Torino, 2 dicembre 1713 – Parigi, 6 settembre 1783) in Francia, anche Carlo Coralli (di cui non si conoscono con esattezza nascita e morte) interpretò il ruolo di Arlecchino, ma con minor fortuna, stando a quanto riferisce lo stesso Goldoni nelle “Memoires”. La riforma goldoniana prevedeva il lento declino delle maschere in scena fino alla loro totale scomparsa, ma con Carlo Gozzi (Venezia, 13 dicembre 1720 – Venezia, 4 aprile 1806) – un estimatore dell’antica Commedia dell’Arte – Arlecchino continuò ad andare in scena almeno fino agli ultimi decenni del XVIII secolo. Con l’inizio del XX secolo rinacque una certa curiosità per quell’arte teatrale ormai definitivamente scomparsa; molti critici si occuparono della Commedia dell’Arte e alcuni registi tentarono l’impresa di rimettere in scena il teatro delle maschere: il vero problema era trovare attori veramente capaci di esprimere le passioni col corpo, nonostante la fissità della maschera. Fra i registi che riuscirono nell’intento i due più famosi furono: Max Reinhardt (Baden, 9 settembre 1873 – New York, 31 ottobre 1943) e Giorgio Strehler (Trieste, 14 agosto 1921 – Lugano, 25 dicembre 1997), che scelsero la stessa opera cioè Il servitore di due padroni di Goldoni per rimettere in scena Arlecchino (Strehler cambiò il nome della commedia in Arlecchino servitore di due padroni). Nonostante le difficoltà nel reperire attori all’altezza del ruolo, Reinhardt trovò in Hermann Thimig (Vienna, 3 ottobre 1890 – Vienna, 7 luglio 1982) un grande Arlecchino e Strehler in Marcello Moretti (Venezia, 30 novembre 1910 – Roma, 18 gennaio 1961) e poi in Ferruccio Soleri (Firenze, 6 novembre 1929).
Lo spettacolo in tournée in dicembre a Roma (teatro Argentina) e poi in Italia vede proprio come protagonista l’ottantatreenne Soleri nella storica regia di Giorgio Strehler (adattata dallo stesso Soleri). L’intreccio è arcinoto: al centro della commedia troviamo Arlecchino, servitore di due padroni che, per perseguire il suo unico intento – mangiare a sazietà – intreccia la vicenda all’inverosimile, creando equivoci e guai.
La commedia si apre a Venezia in casa di Pantalone de’ Bisognosi, anziano mercante che sta assistendo alla promessa di matrimonio tra la propria figlia, Clarice, e Silvio, figlio del Dottore Lombardi. I due innamorati possono promettersi perché Federigo Rasponi, agiato torinese cui Clarice era destinata, è morto in una lite scoppiata a causa della sorella di lui Beatrice. Alla promessa assistono Smeraldina, giovane serva di Clarice, e Brighella, locandiere veneziano che funge da testimone. Nella scena irrompe Arlecchino che annuncia l’arrivo del suo padrone Federigo Rasponi, venuto a Venezia per incontrare la futura sposa e chiarire gli affari sulla dote della ragazza. Si tratta in realtà di Beatrice Rasponi, sorella del defunto, travestitasi da uomo per riscuotere ingannevolmente i soldi della dote e aiutare Florindo Aretusi, amante suo fuggito a Venezia per aver inferto il colpo mortale a Federigo. Brighella riconosce Beatrice, che aveva visto in un’altra occasione, ma non svela l’inganno e, anzi, accetta di farsi garante dell’identità di Federigo Rasponi. Neanche Arlecchino, servitore assunto a Bergamo, conosce bene il proprio padrone né gli interessa visto che, perennemente tormentato dalla fame, il suo unico obiettivo è riempire la pancia. Poiché Federigo-Beatrice salta spesso il pranzo, sperando in meglio Arlecchino si presta a servire anche un nuovo padrone, proprio quel Florindo Aretusi arrivato sotto il falso nome di Orazio Ardenti. Beatrice e Florindo subiscono le bugie e la scaltrezza del servitore che, nel tentativo di svincolarsi da situazioni critiche, crea una catena di guai le cui responsabilità agli addossa ad un fantomatico servitore di nome Pasquale, personaggio che in realtà non esiste. Quando Beatrice riconosce Florindo, immagina che Pasquale sia il servitore dell’altro e viceversa. Arlecchino soffre la fame, corteggia Smeraldina, ama, finge di saper leggere, serve acrobaticamente i due padroni in stanze diverse, pasticcia la trama e la risolve; l’imbarazzo raggiunge il culmine nel momento in cui scambia il contenuto dei bauli di Beatrice e di Florindo: deve giustificare a Beatrice come sia entrato in possesso di lettere che appartengono a Florindo e a quest’ultimo il perché abbia con sé un ritratto di proprietà di Beatrice. Arlecchino racconta di avere questi oggetti da un precedente padrone defunto: Beatrice e Florindo vogliono suicidarsi, convinti che i rispettivi amanti siano morti, ma di nuovo Arlecchino riesce a risolvere ogni cosa. I due innamorati si ritrovano per caso e sono condotti a nozze; Clarice e Silvio con le rispettive famiglie si riappacificano e, non appena viene svelato l’inganno di Beatrice, Arlecchino e Smeraldina ottengono il permesso di sposarsi.
Il servo scaltro si svela per amore della servetta: “Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti i siori me perdonerà” e si appresta a vivere felice e contento ma, esaurite le parole, la messa in scena di Ferruccio Soleri propone una riflessione conclusiva più originale: Smeraldina è innamorata del servitore di Beatrice o del servitore di Florindo? Daranno il consenso ad Arlecchino o a Pasquale? Il protagonista si accascia sul tavolato, vittima del suo stesso inganno….
Arlecchino servitore di due padroni è uno spettacolo da vedere almeno una volta nella vita, per il suo valore fondante del teatro italiano moderno, per la storica regia di Strehler e per ammirare uno dei più grandi Arlecchini: l’ottantareenne Ferruccio Soleri che salta, corre e fa capriole come un incredibile giovane attore. L’impostazione di Strehler è quella di teatro nel teatro: in uno spazio scenico all’antica – fatto di drappi e cartapesta – una pedana è il luogo della recitazione; lo spazio intorno ha il valore di “quinta aperta” dove gli attori non impegnati “perdono” le caratteristiche dei personaggi e recitano i ruoli degli interpreti, dei tecnici, del suggeritore dando vita a siparietti in cui ironizzano su se stessi e sugli altri. In questo si caratterizzano molto efficacemente i due personaggi di Pantalone e del Dottor Lombardi che spiccano sugli altri comprimari, e contribuiscono ad arricchire di significato gli avvenimenti descritti. Scialbi e quasi privi di ogni qualità sono invece, per volontà dell’autore, i protagonisti ufficiali della vicenda: Beatrice e Florindo – ottimamente interpretati sulla scena – giovani ricchi e nullafacenti che si caratterizzano come truffatrice e come assassino. Con nonchalance, Goldoni lascia passare una pesantissima critica verso la prepotente aristocrazia del suo tempo (e di tutti i tempi): con intenzioni simili Mozart faceva cantare a Figaro, servitore del Conte di Almaviva: “Se vuol ballare signor contino il chitarrino le suonerò”. Stupefacente è la figura di Arlecchino, arguta, confusa, mossa da desideri e bisogni fortissimi la cui vitalità è lanciata oltre ogni ostacolo; simile natura ha Papageno, coprotagonista del Flauto Magico, perennemente in bilico tra coraggio e necessità.
Regia Giorgio Strehler; messa in scena da Ferruccio Soleri con la collaborazione di Stefano de Luca; scene Ezio Frigerio, costumi Franca Squarciapino, luci Gerardo Modica, musiche Fiorenzo Carpi, movimenti mimici Marise Flach, scenografa collaboratrice Leila Fteita, maschere Amleto e Donato Sartori; con Ferruccio Soleri, e (in ordine alfabetico) Enrico Bonavera, Giorgio Bongiovanni, Francesco Cordella, Leonardo De Colle, Alessandra Gigli, Stefano Guizzi, Pia Lanciotti, Sergio Leone, Fabrizio Martorelli, Tommaso Minniti, Katia Mirabella, Stefano Onofri, Annamaria Rossano e i suonatori Gianni Bobbio, Leonardo Cipriani, Francesco Mazzoleni, Celio Regoli, Francesco Piccinini. Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
Pietro De Santis