Radu Lupu e Mozart
Radu Lupu è un pianista romeno di sessantotto anni, dedito allo studio e all’interpretazione dei grandi autori classici e romantici da Mozart a Brahms; predilige anche Čajkovskij e Mussorgskij e, relativamente al novecento, Bartók. Le sue esecuzioni sono caratterizzate da un’estesa varietà di sfumature espressive, gradazioni dinamiche e impasti sonori che si caratterizzano per l’originalità e la profondità della personale lettura.
Martedì 19 dicembre 2014 Radu Lupu ha eseguito il concerto 23 K 488 per pianoforte ed orchestra di Mozart, accompagnato dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Antonio Pappano nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium del Parco della Musica a Roma.L’impressione che ci ha destato questo esecutore si può esprimere attraverso il paragone con la Santa Messa ante e post Concilio Vaticano II: prima, il sacerdote dava le spalle ai fedeli – semplici spettatori – mantenendo un rapporto personale con la divinità; dopo, i fedeli sono divenuti compartecipi, celebranti essi stessi innanzi alla presenza di Dio, immanente all’interno dell’assemblea.
Radu Lupu espone l’intenzione musicale dell’autore la cui presenza spirituale condivide con il pubblico: nei suoi concerti anche l’orchestra recita un ruolo di spettatore in alcuni momenti, come pure egli stesso in altri. La sua interpretazione ci sembra pertanto un dialogo insieme con l’orchestra e con il pubblico: egli si comporta come un attore che, recitando, è in grado di raccogliere le reazioni del pubblico e modulare la propria espressività anche in funzione dei sentimenti che riesce a suscitare, per corrispondere alle intenzioni dell’autore. Radu Lupu “fa da tramite” tra Mozart ed il pubblico, ma anche “recita” Mozart, mentre lo esegue comodamente seduto su di una poltroncina imbottita – poiché non ama il tradizionale sgabello – con straordinaria scioltezza, precisione e impressionante capacità di adattare la dinamica e la pressione delle dita alla singola nota, anche nei passaggi più veloci del brano. Egli suona a memoria, con lo sguardo indirizzato verso l’orchestra, di cui cerca l’intenzione; e dialoga con le differenti sezioni strumentali, mentre ribadiscono un tema esposto in precedenza, quasi assumendo il ruolo di accompagnatore.
I concerti per pianoforte e orchestra venivano presentati dallo stesso Mozart in veste di esecutore, durante la Quaresima, attraverso le Accademie Musicali con ingresso a pagamento: oltre ad ottenere un compenso sicuro, egli aveva anche l’opportunità di comporre secondo la propria ispirazione liberata dalle necessità di adattare la musica alle caratteristiche di altri pianisti. Per questo i concerti per pianoforte e orchestra rappresentano alcune delle pagine da lui più amate tra le sue composizioni.
Il concerto n. 23 in La maggiore K 488 fu composto per la Quaresima del 1786: si contraddistingue per un carattere contenuto sia nel virtuosismo sia nella ricchezza della compagine strumentale limitata ad archi, flauti, clarinetti, fagotti e corni.
Il primo tempo (allegro) inizia con un tema che, attraverso un respiro sinfonico, esprime una grande serenità che si vivacizza nell’intervento dei fiati – i corni in particolare –: il pianoforte ne ribadisce il senso introducendo elementi di allegria e ironia mista ad istantanei ripensamenti di tenera nostalgia, con vertici melodici di rara bellezza. Il pianoforte introduce il secondo tema (adagio), che esprime ora una nostalgia intensa in un carattere di eccezionale bellezza. Tutto lo sviluppo è limpido ed altamente espressivo. Il terzo movimento (allegro assai) si gioca interamente tra le due intenzioni – ironica e nostalgica con alcuni elementi persino eroici – in un rincorrersi tra solista ed orchestra all’interno di un vortice sonoro entusiasmante e trascinante.
L’orchestra di Santa Cecilia ed il suo direttore Antonio Pappano hanno risposto bene, pienamente immersi in un’aura di “santità” musicale: solo per un attimo, nel secondo movimento dopo l’introduzione pianistica, abbiamo colto nell’attacco orchestrale un’intenzione differente rispetto a quella del solista, per alcune battute. Lunghi applausi (circa 20 minuti) e la concessione di un bis di fronte a tanta partecipazione: la Fantasia in re minore K. 397 di Mozart, in religioso silenzio prima di un’ultima fragorosa esplosione di applausi.
Altra atmosfera si è respirata prima e dopo il concerto mozartiano, nella Sinfonia da Requiem di Britten (1940) e nella Sinfonia n. 1 in Do minore di Brahms, brani entrambi che richiedono una nutrita compagine orchestrale. Antonio Pappano ha descritto al pubblico, microfono alla mano, il lavoro di Britten allo scopo di consentirne il pieno apprezzamento e non mortificare i musicisti con un clima di freddo disinteresse. In effetti si tratta di un brano molto intenso e psicologicamente ricco, eseguito in un movimento unico, sebbene tripartito: Lacrymosa (andante), Dies Irae (allegro) e Requiem Aeternam (Andante). Risulta fondamentale il contributo ritmico drammatico, scandito dall’intervento di un folto numero di percussioni e dalla personalità squassante degli ottoni, che vuole suggerire il terrore dell’ineluttabilità. Gli archi pongono continui interrogativi senza risposta, concludendo le proprie frasi su accordi di sospensione. Le frequenti e ripetute dissonanze ben delineano la confusione mentale ed il magmatico caos del pensiero, di fronte all’abisso dell’inspiegabile: inspiegabile, per Britten, convinto pacifista, era la guerra iniziata e devastante. Il committente, l’Impero Giapponese che intendeva festeggiare i propri 2600 anni, rifiutò l’opera, che venne eseguita solo nell’anno successivo.
In comune alla precedente, la Sinfonia n.1 in Do minore di Brahms ha la presenza ossessiva dei timpani e delle note ribattute che ribadiscono un ostinato tema iniziale. Belle melodie di passaggio con fraseggi delicati introducono forti contenuti drammatici, resi affascinanti da un notevole costrutto sinfonico di archi e fiati, che richiama evidenti echi beethoveniani. L’atmosfera pienamente romantica dell’opera poggia su elementi drammatici ed eroici di forte impatto sonoro.
La sinfonia è strutturata in quattro movimenti, i quali sembrano procedere come una progressione di terze maggiori: il primo tempo è in Do minore, il secondo in Mi Maggiore, il terzo in Lab Maggiore (enarmonicamente equivalente ad un Sol#), mentre l’ultimo tempo è in Do Maggiore. Il primo movimento è di impianto drammatico ed ossessivo; il secondo tempo ha un carattere lirico, sognante e struggente – che sembra una parentesi rispetto al precedente –, come se il dramma temuto ed evocato venga accantonato. Il terzo tempo è un intermezzo privo di un carattere preciso e costituisce un momento di distensione prima del finale la cui forma molto ardita, quasi simbolica, può essere immaginata come un poema sinfonico.
Non condividiamo, nel primo e nel quarto movimento, il peso dato ai timpani il cui fortissimo ci è sembrato esagerato nel primo movimento e leggermente fuori tempo nel quarto: comunque abbiamo apprezzato un’esecuzione di alto livello e lo spessore qualitativo del direttore e degli esecutori.
Nel fuggi, fuggi generale di fine concerto, un’esile pioggerellina ci faceva pregustare gli ultimi giorni dell’Avvento, la sospensione dai ritmi consueti della vita e la riproposizione di un sogno ingenuo ma non inutile. (pietrodesantis)