Rusalka
È un’opera in tre atti composta da Antonín Dvořák (1901) su libretto di Jaroslav Kvapil. Il titolo è il nome di una creatura acquatica, una ninfa, trasferita dalla mitologia greca in quella slava. La fiaba vuole rappresentare la dissoluzione di una natura che rimarrebbe incantata, se le torbide passioni umane non la contaminassero. Ma l’uomo, tradendo la natura, va incontro alla propria fine.
La storia è ispirata ad Undine (1811) di Friedrich de la Motte Fouqué, con una strizzatina d’occhio anche ad Hans Christian Andersen ed all’ingenuità della sua Sirenetta (1836).
Ma gli aspetti poetici che caratterizzano le due fiabe scompaiono quasi del tutto forse a causa delle difficoltà, tipiche dei librettisti, cui si impongono semplificazioni drastiche, cossicché Rusalka acquisisce una fisionomia puramente retorica.
La musica di Dvořák, bella, densa e drammatica – a parte tre scene più leggere, che fanno da intermezzo – non esce immune alla prova del testo e, detto a chiare lettere, risulta un poemone sinfonico abbastanza lento, che si protrae per tre ore e mezzo. Il musicista risulta in quest’opera generalmente abbastanza prolisso e l’insieme sinfonico, sempre denso, non facilita l’ascolto nemmeno delle arie principali o dei lunghissimi duetti. La direzione di Elvind Gullberg Jensen, orientata verso una solida correttezza formale, tende ad esaltare gli elementi psicologici, drammatizzandoli. Il lavoro registico di Denis Krief, cui si debbono anche scene e costumi, non aiuta la godibilità dello spettacolo ma, piuttosto, lo affonda nella retorica. La scenografia è nuda: grandi quinte di legno chiudono entrambi i lati ed il fondale e consentono l’apertura di porte, o intere pareti, a seconda delle esigenze. Pochi elementi scenici arricchiscono, di volta in volta, la scenografia: quinte mobili che rappresentano un canneto e il prospetto della casetta di strega; oppure colonne di sostegno per un salone principesco. Due botole segnano ingresso ed uscita tra mondo subacqueo e mondo terrestre. I costumi oscillano tra il tradizionale (strega, cacciatore, guardiacaccia) ed il moderno con miniabiti o vestiti attillati (corpo di ballo, nel piacevole intermezzo danzato, e fate) in un rimbalzo tra antico e moderno non molto coerente.
Lo sviluppo degli eventi, che non possiamo riassumere senza ironia, è scandito nella maniera che segue. Tre belle ragazze (Anna Gorbachyova, Federica Giansanti e Hannah Esther Minutillo), provocanti nei vestiti attillati e nelle movenze, vogliono sedurre Vodnik (Steven Humes), Spirito delle acque, padre e re del mondo acquatico. Una delle figlie, Rusalka (Anna Kasyan), esprime la volontà di divenire umana per il desiderio carnale (o acquatico?) nei confronti di un principe, che usa bagnare le proprie membra nel lago. Vodnik suggerisce di lasciar perdere, perché la storia pende male, ma la ragazza insiste e – si sa come son fatti i giovani – la spunta. L’ondina si rivolge perciò alla strega Jezibaba (l’ottimo mezzosoprano Larissa Dladkova) che prevede ogni tipo di sventura per lei e per lo sventurato principe oggetto d’amore, qualora questi la tradisca con altre (mai innamorarsi di una creatura pura…). Naturalmente, come sempre accade, ogni consiglio esita nella decisione opposta; perciò Jezibaba prepara il filtro che Rusalka beve, cedendo in cambio alla strega la voce ed il vestito trasparente di ondina.
Al mattino il principe (Peter Berger) si inoltra nel bosco insieme ad un cacciatore (Antonello Ceron) ed al Guardiacaccia (Igor Gnidii) e vicino al lago intravede la bella ragazza (che dovrebbe essere nuda, ma è vestita) mentre esce dalla capanna di Jezibaba. Egli si sente istantaneamente sedotto dal bel corpo nudo, sebbene vestito; e Rusalka, non potendo parlare, gli si getta tra le braccia, ma poi si ritrae: il tira e molla va avanti per un po’ finché ilò principe la invita a seguirlo.
Passa il tempo e nel castello fervono i preparativi per le nozze tra il principe e la ragazza muta, i cui continui tira e molla, per abbracci richiesti e rifiutati, cominciano ad annoiare l’ex innamorato (dal che si può dedurre che l’uomo sarà pur perverso, ma la natura è estenuante). Lo spettatore (io, per esempio) non capisce cosa desideri Rusalka, forse perché non lo hanno capito nemmeno il librettista oppure il regista, o tutti e due insieme. Non lo capisce nemmeno il principe che, annoiato da questo andamento eroticamente poco soddisfacente, si entusiasma scorgendo invece, tra la folla degli invitati, una dama (Michelle Breedt) vestita di un frak rosso che ne esalta le forme piuttosto abbondanti – e bisogna dire che i tre protagonisti principali sono tutti ben in carne –: pare al principe (al librettista, al regista e anche allo spettatore) che costei si faccia minori scrupoli in termini di approcci sessuali. Il principe invita la dama nel giardino del castello, luogo in cui i due si sentono liberi di esprimere il proprio reciproco desiderio; ciò avviene però sotto lo sguardo di Vodnik, che è tornato “a galla” per controllare la situazione e comunicare a Rusalka il tipico: «te l’avevo detto…» in lingua ceka.
Vodnik, irritato come un attivista di legambiente, annuncia guai seri all’uomo che ha tradito la sua bambina: il principe, preso dal rimorso (che arriva puntuale ogni volta che si prova paura), chiede solidarietà alla bella dama che invece lo sdegna (avendo egli perduto gli attributi…)
Rusalka ritorna nel suo elemento, l’acqua, ma è costretta ad errare per sempre, secondo quanto predettole: chiede a Jezibaba di “patteggiare” la pena, come in ogni ordinamento giudiziario che si rispetti. La cosa si potrebbe fare, dice la strega, a patto che ella uccida l’uomo.
Le tre fate sexy tornano per consolare Vodnik, che sta lanciando maledizioni contro la specie umana. Nel mentre arriva il principe, presso la riva, e chiama Rusalka chiedendole perdono: vuole essere baciato, nonostante ciò comporti la sua morte. L’ondina lo bacia ed il principe muore ma, dal fondale, una lama di luce segnala – con retorica espressa all’ennesima potenza – una possibile speranza.
Non si può negare che l’opera risulti interessante musicalmente e che cantanti, musicisti e coro non siano stati all’altezza: il problema è che la virata retorica, massimamente dovuta al libretto e in parte alla qualità musicale, ma soprattutto esaltata da direzione d’orchestra e regia, conferisce all’insieme l’aspetto del polpettone. Bisogna innalzare ad un gradino superiore, però, la qualità vocale e la presenza scenica di Larissa Dladkova (la strega), interprete d’eccezione capace di risvegliare l’interesse anche nelle masse dei parrocchiani sonnecchianti presenti in sala. Già: pare che l’Opera di Roma abbia stabilito una sorta di convenzione con il Vicariato (ma non credo valga per tutte le rappresentazioni). La cosa merita sicuramente un plauso per i contraenti dell’accordo anche se devo ammettere di avere immaginato una certa percentuale di biglietti invenduti e di avere provato disorientamento a causa della tipologia dei discorsi ascoltati durante gli intervalli.
Vogliamo fare un plauso al corpo di ballo: l’intermezzo di danza, come nelle opere antiche, era sicuramente gradevole ed i ballerini erano bravi e soprattutto belli.
Pietro De Santis