Uno sguardo all’arte popolare (de rose, de viole e gerzomino)
Da un po’ di tempo ho intenzione di scrivere qualche pensiero intorno all’arte popolare; lo spettacolo de rose, de viole e gerzomino presentato da Oberdan Cesanelli nel Teatro Comunale di Morrovalle me ne fornisce l’occasione.
Perciò, al fine di chiarire le intenzioni di cui sopra, parlerò dello spettacolo: si tratta di una piccola raccolta di storie, musiche e danza della tradizione marchigiana – e morrovallese, con qualche lieve forzatura – che propone un saluto alla primavera, al risveglio della natura e all’amore.
Protagonisti ne sono: Oberdan Cesanelli (voce recitante); Roberto Lucanero (organetto, fisarmonica, voce); Marco Meo (voce, tamburello, danza); Sara Piatanesi (danza). I due danzatori vestivano secondo la tradizione marchigiana (direi ottocentesca).
Lo spettacolo è semplice e godibile: ottimo musicista è Roberto Lucanero (attivo come fisarmonicista, organettista, suonatore di organo portativo medievale, compositore, didatta, saggista), e di notevole qualità sono la voce di Marco Meo e il saltarello dello stesso Meo e di Sara Piatanesi. Da questo – e da altri due elementi dello spettacolo – intendo partire per esprimere un paio di pensieri sull’arte popolare.
I nostri amici, presenti con noi in teatro, ci hanno confermato la qualità della danza: il saltarello va danzato dalla vita in giù, mentre spalle, busto e viso debbono rimanere fermi. La notevole bravura degli interpreti ci ha consentito di sottolineare anche altri particolari: il ritmo musicale, sostenuto dall’organetto, deve essere ribadito dai colpi dati con i piedi danzando; tali colpi non consistono, propriamente, in uno sbattere a terra, ma in una maniera di scalciare da dietro in avanti, elegante, che suggerisce l’immagine di un’onda; l’onda del mare che batte sull’arenile. La gonna larga della danzatrice tende a fare la ruota, durante le rotazioni del corpo, e le mani scendono verso il basso per impedirlo: troviamo anche questo gesto elegante e persino sensuale. Il saltarello è diffuso in tutta l’Italia centro meridionale (e non solo…)
Una seconda osservazione riguarda il testo: la favola del Gallo Cristallo e della Gallina Cristallina – letta in maniera veramente piacevole da Oberdan Cesanelli – altro non è se non la riproposizione di Cappuccetto Rosso o di Pierino e il Lupo, fiabe diffuse in tutto il mondo. Anche gli stornelli – letti da Oberdan e cantati da Marco Meo – sono del tutto simili ai fescennini, da cui derivano indubbiamente.
Queste tre osservazioni mi inducono ad affermare che l’arte popolare è (o sembra) trasversale sia nello spazio sia nel tempo; cioè essa è fortemente legata all’inconscio sociale (come diciamo noi) e perciò va praticata, studiata e utilizzata – nelle forme e nei contenuti – come una lente d’ingrandimento dell’animo umano e dell’inconscio sociale.
È definibile l’arte popolare? Il mio desiderio di discuterne è nato rileggendo un articolo di Pasolini (in Scritti Corsari) nel quale egli parla della letteratura popolare, in occasione dell’uscita di un libro “Avvendure di guerra e di pace” (sic!) scritto dallo sconosciuto, semianalfabeta, Francesco De Gaetano (e rintracciato per me, con amore, da una persona amica). Dice Pasolini: “Lo sguardo che il giovane De Gaetano lancia sulle cose, nella sua grande avventura, è tanto più poetico quanto più egli vive e si esprime a un livello che dir pratico è poco: si tratta infatti del livello dell’utilitarismo puro, posto al servizio della più assoluta necessità”. Non sembra, questa, una definizione che si adatti – per esempio – anche ad Arlecchino servitore di due padroni (dell’amatissimo Carlo Goldoni)? Nell’arte popolare si rintraccia un’intensa qualità poetica: lo stesso De Gaetano nel presentare il proprio libro dedica al lettore tre versi splendidi “Mentre l’uomo si avvia verso una lunga via| prima di arrivare si perde| e tramonta durante il suo cammino” che raccontano della perdita dell’innocenza, sua e dell’uomo (fa capolino di nuovo l’inconscio sociale).
Quella lettura mi ha indotto ad una autocritica visto che l’ho sempre considerata, quella popolare, una sottocultura. Però rimane da definire cosa si intenda per arte popolare o, più in generale, per arte; e ciò non è per niente semplice. L’arte ha a che fare con strumenti e tecniche, voci interiori e voci esterne, consapevolezza ed inconscio, ingenuità e cattiva coscienza. Sicuramente ha a che fare con una ricerca.
Per quest’idea inserisco qui, come omaggio, il contenuto della ricerca poetica di un amico non laureato, non letterato, che non ambisce all’alloro della fama, ma cerca di esprimere alcuni pensieri che premono nella sua testa.
Quel vento sarcastico pieno | di sorrisi illumina la sera | ricordando | mi | la bellezza della vita
Quel vento pieno di sorrisi | illumina la sera | ricordando sarcastico | la bellezza della vita
Ricordando la bellezza della vita | quel vento illuminava sarcastico | la serata piena di sorrisi
La serata piena di sorrisi | quel vento sarcastico illumina | ricordando | la bellezza della vita
In questa ricerca, il soggetto varia implicitamente dall’io al noi, mentre il centro dell’attenzione si sposta dal vento, ai sorrisi, alla bellezza della vita: tutto è modellato con la materia del vento, inafferrabile, imprevedibile, effimero. (pietro de santis)