La vita segreta delle parole
Film, regia di Isabelle Coitex; Sarah Polley protagonista femminile, premio oscar come miglior attrice protagonista; protagonista maschile Tim Robbins.
Il film racconta la storia di Hanna, scampata la conflitto serbo-bosniaco, operaia in una fabbrica dell’Irlanda del Nord: metodica, maniacale, rigorosa al punto di indurre i suoi superiori ad assegnarle un periodo di ferie.All’inizio del viaggio, che dovrebbe portarla in vacanza, ascolta casualmente la telefonata di un medico alla ricerca di un infermiere che assista un ustionato all’interno di in una piattaforma petrolifera.
Con una certa forzatura narrativa, la vicenda si trasferisce proprio in questo ambiente: la piattaforma è in disuso, ma ospita alcune persone – tra cui spicca la personalità simbolica di un geologo ed un cuoco – che debbono assicurarne la manutenzione in vista di una ripresa di attività. Dimostrando una sensibilità quasi sado-masochista, Isabelle Coitex apre le ali del racconto e narra le paure, gli orrori, la solitudine, la gioia, il coraggio, la bellezza, il desiderio che si manifestano più fortemente in un ambiente distaccato dal normale consesso sociale. La semplicità dei gesti e l’essenzialità del dialogo, che hanno fatto la fortuna degli eremitaggi, degli agriturismi e delle stanze del Grande Fratello, trasmettono allo spettatore messaggi precisi ed inequivocabili, corroborati da una bella fotografia e da una recitazione di stampo teatrale.
In questo luogo fuori dal mondo, devastato, Hanna porta come in un segreto la realtà della guerra, violenta in Bosnia come in tutti gli angoli della terra, fatta di prevaricazioni, stupri, mutilazioni, omicidi soprattutto nei confronti di coloro che dovrebbero essere protetti. Il film vuol essere anche un’ennesima denuncia per i crimini commessi, taciuti e declamati con il pretesto della guerra.
La vita della piattaforma, alla luce di queste premesse, acquisisce un significato simbolico: pur nella diversità, tutti sono accomunati dal desiderio della relazione e dal bisogno di raccontarsi.
Facendo un po’ di affettuosa ironia nei confronti di un film bello seppure ingenuo, si può dire che la regista ed il produttore (Pedro Almodovar) siano stati ispirati dal fascino di un mondo maschile interessante perché omosessuale e scevro delle beghe femminili: di donna ne è sufficiente solo una, indispensabile nel ruolo di lenire le ferite e raccontare soprattutto la propria sofferenza di “essere femmina”.
Dall’ingenua equazione cinematografica fatta di rimpianti, fiducia, amore, coraggio traspare l’ennesima lettura di una donna-regista confusa e un po’ invidiosa, che prova a lottare contro il senso comune e ne viene sconfitta: ogni donna ha valore perché soffre; ogni donna di valore ha diritto al proprio uomo, raccattato dalla spazzatura, rimesso in sesto e quindi di proprietà.
sandraantonetti