Il padre d’Italia
Sono andato a vedere questo film – ed ho invitato qualcuno ad accompagnarmi a suo rischio e pericolo – attratto dal titolo ingannevole e immaginando chissà cosa: un ‘temone’ sulla figura paterna, una visione sociale del ruolo attuale di padre… l’argomento non era quello sperato, sebbene comunque tratti l’argomento della paternità e tenti di aggiungere un punto di vista vagamente originale. Però il titolo andrebbe corretto: Il padre di Italia, senza apostrofo, sarebbe più esplicito essendo, Italia, una creaturina nata prematura ed abbandonata dalla madre in ospedale…
In effetti si dice dire Fratelli d’Italia per intendere la nazione ed il suo inno; oppure fratelli di Italia per intendere quei maschi che hanno per sorella una ragazza di nome Italia. Trovo il titolo volutamente equivoco ed ingannevole, ma non reclamerò il prezzo del biglietto…
Il film tratta di una storia improbabile, quasi una favola, in cui Paolo (Luca Marinelli), ragazzo omosessuale politicamente corretto (gli omosessuali non debbono desiderare i figli) e per questo piuttosto chiuso, è impiegato presso un grande magazzino simil’Ikea. La vicenda prende l’avvio con la crisi sentimentale che porta Paolo alla rottura con il compagno Mario (Mario Sgueglia) – che esibisce un livello economico e culturale più elevato –, dopo una relazione di otto anni, a causa dell’esigenza di lui di regolarizzare la coppia, al fine di avere un figlio.
In una nottata frustrante dedicata alla ricerca di sesso in un locale gay, nel mucchio della promiscuità maschile Paolo s’imbatte nella presenza inconsueta di una ragazza: Mia (Isabella Ragonese), nel momento in cui viene colta da malore. Egli se ne prende cura: l’accompagna in ospedale e scopre che è incinta di una bambina.
Mia è un’emarginata che insegue un mito di cantante rock e non ha un luogo dove andare. Dapprima contro voglia, perché non sa dire di no, poi sempre più coinvolto nelle bugie di Mia – meglio sarebbe dire nel suo diniego della realtà – Paolo la ospita; si lascia trascinare a Roma, dove la ragazza ha dichiarato di abitare; poi a Napoli, per cercare l’inesistente padre della bimba; infine in un paesino nei dintorni di Reggio Calabria, suo luogo di provenienza. Qui si rivela il vero nome; Mimma nasconde nel diminutivo Mia la propria origine (si tratta probabilmente di un omaggio fatto dagli sceneggiatori a Mia Martini, nata a Bagnara Calabra, luogo tutto sommato compatibile con la scelta dal regista, distante solo 30 chilometri da Reggio. Di citazione in citazione suggerisco, a chi ne abbia voglia, di scoprire un personaggio simile a Mimma – che è più comune di quanto non si creda – nel bel libro Cosmofobia di Lucía Etxebarría).
La storia si dipana tra l’amaro ed il dolce: il ritorno di Mimma riaccende affetti sopiti e rancori sempre vivi, in un ambiente sociale la cui arretratezza viene descritta in maniera forse troppo retorica. Paolo, classico bravo ragazzo, accolto quale fidanzato riceve affetto e simpatia: egli stesso si raffigura nel personaggio di promesso sposo e poi di padre della nascitura (a Napoli Mia, a conclusione di un siparietto divertente, ha rubato un abito da sposa) tanto da essere coinvolto anche in un approccio sessuale da parte della ragazza: argomento, questo, piuttosto interessante.
Ma i rancori famigliari hanno il sopravvento: Mia, la cui personalità è palesemente scissa, coglie l’alibi del rifiuto materno (Anna Ferruzzo) per fuggire. Paolo rivive la propria vicenda di bimbo abbandonato che affonda nel ricordo di un’immagine femminile, del suo allontanarsi, volgere la schiena.
“Je corsi dietro ma nu’ l’arivai…” dice una canzone tradizionale romana, “la cerco sempre e nu’ la trovo mai…”: questo è Paolo.
Lo ritroviamo a distanza di tempo a casa sua che riceve una telefonata: gli comunicano la nascita di Italia, abbandonata in ospedale dalla madre che non l’ha riconosciuta, indicandolo come padre naturale… sempre sbalordito e travolto dagli eventi, Paolo scende in Sicilia; nel reparto neonatologia dell’ospedale tocca la manina della piccola Italia che risponde stringendogli il dito (per il noto riflesso condizionato che volentieri addobbiamo di sentimenti amorosi). La favola è conclusa: Paolo ha trovato il significato della vita e i due vivranno per sempre felici e contenti… forse.
Dobbiamo riconoscere la notevole bravura dei due protagonisti, dotati di una bellezza particolare e persino eclatante e di una grande sensibilità artistica; e dei comprimari molto ben utilizzati. Dobbiamo riconoscere la qualità della regia (di Francesco Mollo) che ricorre con criterio ai primi piani, alla macchina a spalla, alla stringatezza delle scene e dei dialoghi (di Francesco Mollo e Josella Porto) senza ricorrere a sbrodolamenti sentimentali; tutto ciò con il supporto notevolissimo di Daria D’Antonio (fotografia) e Filippo Montemurro (montaggio) e facendo ricorso alla musica aggressiva e pesante di Giorgio Giampà, perfettamente caratterizzante gli ambienti dei locali di ritrovo.
Naturalmente la logica del film richiede qualche riflessione che lanciamo con rapidi accenti: c’è l’accenno iniziale al tema dell’utero in affitto, poi surrogato nell’utero in regalo; quello della frivolezza violenta dell’aborto; poi la paternità consapevole; la scomparsa dei ruoli femminili; la passione femminile per i rapporti fisici con i maschi omosessuali; i maschi divengono omosessuali per “sfiga” o per altre ragioni? Debbono essere, i figli, proprietà dei genitori? Buone riflessioni primaverili.
Pietro De Santis