Due partite

Due partite

di Cristina  Comencini
con Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi e Valeria Milillo
scene di Paola Comencini
costumi di Antonella Berardi
regia di Cristina Comencini
al Teatro Valle fino al 6 maggio.

Quattro donne, amiche da sempre, si ritrovano come ogni giovedì, per giocare a carte. Mentre il gioco scorre, emergono i caratteri e le condizioni esistenziali di ciascuna: la prima è una moglie tradita che sfoga il proprio sadismo sulle amiche; la seconda è una musicista che ha rinunciato alla propria carriera per agevolare quella del marito; la terza, sposatasi a causa di una maternità non voluta, conduce una doppia vita; la quarta, psicotica, vive nel terrore del prossimo parto.  Accomuna le quattro donne l’adesione ad una cultura borghese ed il fatto di avere (o stare per avere) almeno una bambina.

Si alternano momenti di allegria, rapide esplosioni di rabbia e malinconici abbandoni, mentre il discorso verte sul ruolo di madre, di moglie di figlia. Si chiude il sipario del primo atto con le urla del travaglio e si riapre nella medesima stanza, resa più moderna nell’arredamento, al termine di un funerale. Sono trascorsi, immaginiamo, trent’anni e questa volta in scena sono le figlie – interpretate dalle medesime attrici – che compiangono la morte della sopradetta partoriente: morte per suicidio.
Le vite di queste figlie seguono una dantesca legge del contrappasso: la figlia della donna tradita è single e tenta disperatamente di avere un bambino con l’inseminazione artificiale, da uno sconosciuto donatore; la figlia della musicista rinunciataria è una musicista di grande successo, sposata, il cui marito accudisce la casa per favorirla; la figlia non voluta è medico. Innamoratissima del proprio marito, ma oberata dal lavoro, finge insieme a lui di condurre una doppia vita nei week end al mare. Infine la quarta donna, figlia della suicida, vive nell’angoscia della solitudine.
Ciò che accomuna questi personaggi è la mancanza di figli e l’incertezza del proprio ruolo di donna.

Bisogna dire che il testo è scritto e diretto bene; pieno di idee che ruotano intorno al “femminino” sembra puntare l’attenzione sul ruolo della donna nel tempo: meglio prima, quando nonostante le stridenti contraddizioni, coppia e famiglia costituivano un caposaldo piuttosto forte; oppure meglio ora, con l’attenzione rivolta alle ambizioni personali e alla soddisfazione di desideri egocentrici?
Per tentare di rispondere accademicamente alla domanda è bene sottolineare due assenze piuttosto importanti: dei maschi e della musica. Dei primi si parla in termini quasi comportamentisti, come mariti prima o come compagni poi; della musica non vi è traccia in scena, se si trascura la suoneria di un telefono cellulare volutamente ironica. Nei dialoghi – femministi, femminili o rivendicativi – al maschio vengono attribuite intenzioni per lo più negative che vanno dal peggio (maschio libidinoso) al meno peggio (maschio egoista), a meno che non si tratti di un prete: infatti “i preti non capiscono le donne” afferma una delle protagoniste. Se ne dovrebbe perciò dedurre, per contrasto, che i maschi libidinosi ed egoisti in realtà capiscono le donne: è un invito ad essere libidinosi ed egoisti? Ma i maschi non esistono nemmeno come padri: nello spettacolo le figlie non ne parlano, oppure li citano solo in quanto mariti delle proprie madri. Se il testo della Comencini rispecchia lucidamente l’attuale società, sembra di essere avviati verso un nuova epoca delle dee madri, in cui l’unico ruolo maschile possibile era di figlio/amante. Oppure sacerdote.

Voglio rispondere ora alla domanda posta in modo accademico sopra: la condizione della donna è migliore rispetto a prima? La risposta è semplice: la cultura borghese, così ben descritta nella pièce, è sempre da rifiutare.
Affermarlo è semplice, ma poi il nostro “stupido” inconscio distrugge ogni buona intenzione. Però mi piace ricordare la frase di una grandissima poetessa russa, Marina Cvetaeva: “contro la borghesia non serve la rivoluzione, ma la poesia”. Nello spettacolo della Comencini mancava la poesia, almeno quella suggerita dalla musica.
Questo inaridimento è pesato soprattutto nel finale tronco (e purtroppo anche mal recitato): dall’inizio alla fine, l’autrice ha usato come validissimo trait d’union l’idea, sempre rinviata, di leggere la lettera di un marito. Si tratta di una brutta lettera, letta proprio alla fine; descrive la solitudine della donna come fatto ineluttabile e prelude alla frase finale: “ma uno che dice una cosa così bella, come fa a non accorgersi di niente?” recitata in maniera inespressiva e con la chiusura improvvisa del sipario, buttato giù di colpo. L’effetto, certamente voluto, è brutto e la chiusa sfortunata.
Le attrici sono brave: molto divertenti i caratteri interpretati da Isabella Ferrari nel primo atto e Margherita Buy nel secondo; validissime comprimarie le altre due attrici. Le scene sono ben curate; sembrano citazioni dalle celebri piecès di Giuseppe Patroni Griffi (Metti una sera a cena) o di Vitaliano Brancati (La governate).

pietro de santis

 

 

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