Re Lear al Teatro Eliseo
Giovedì 30 gennaio siamo stati spettatori del Re Lear, in scena al Teatro Eliseo di Roma fino a domenica 2 febbraio.
Re Lear è una tragedia scritta da Shakespeare tra il 1605 ed il 1606, nella piena maturità artistica; l’autore prese spunto dalla mitologia dei Britanni (Goffredo di Monmouth, Historia Regum Britanniae, 1136) che racconta di re Leir – discendente di Bruto nipote di Enea e antenato di Arthur – la cui vicenda, di sapore celebrativo del potere britannico, sarebbe parallela a quella dei Romani.
Spesso scrittori e drammaturghi, nel proporre una storia, cercano uno spunto inziale che abbia il valore della fascinazione, per parlare ai propri contemporanei mantenendo il “capo coperto” come avrebbe detto Socrate (Platone, Fedro 237b-241c).
Il dramma rappresentato inizia già “nel mezzo delle cose”, cioè nel momento in cui re Lear (in scena Glauco Mauri) proclama di abdicare e dividere il regno tra le figlie Goneril (Linda Gennari), Regan (Aurora Peres) e Cordelia (Emilia Scarpati Fanetti) la più giovane e più amata delle tre. Il Re, confidando nell’affetto di Cordelia ma in un eccesso di vanità, chiede a ciascuna di pronunciare un discorso d’amore per ottenere, in premio, una quantità di territori proporzionale alle lusinghe.
Ci sembra opportuno, esplicitare che cosa si intenda con la parola lusinga, troppo spesso mal intesa: il termine deriva dal provenzale lauzenga, che deriva dal francese antico lausinga, e intende “Qualsiasi allettamento, fatto di frasi adulatorie, di parole amiche, di promesse, di atti esteriormente benevoli, di finte attenzioni, con cui si cerca di attrarre qualcuno al nostro volere, di cattivarsene la fiducia col fine di indurlo a fare cosa che sia di nostro vantaggio” (dizionario Treccani della lingua italiana). Per inciso, è altrettanto opportuno sottolineare come non costituisca “lusinga” l’arte della dialettica – che consiste nel convincere attraverso i buoni discorsi –, una delle tre arti liberali alla base dell’insegnamento letterario insieme alla grammatica – cioè l’uso elegante della lingua – e alla retorica – l’arte di utilizzare adeguatamente le convinzioni comuni –.
Ci sembra, perciò, che Shakespeare voglia mettere in chiaro sin dalla prima scena, come la richiesta di Lear esprima una prepotenza radicata, intrecciata con l’arroganza e la presunzione, di chi gestisce il potere in maniera bovina.
Di fronte all’adulazione piuttosto volgare delle sorelle maggiori, che ne rivela l’ambizione, Cordelia resta in silenzio e rifiuta di gareggiare; Lear – indispettito dalla frustrazione ricevuta dalla figlia perché non parla – cede all’ira e decide di dividere in due parti l’affetto e il regno destinati a lei, a favore di Goneril e Regan, e la scaccia: ma il re di Francia, già pretendente della giovane, la prende ugualmente in sposa apprezzandone la sincerità.
Lo stolto proposito di Lear sarebbe quello di un pensionamento felice: cioè smettere di preoccuparsi del regno e trascorrere gli anni a venire ospite delle regine. Nell’arco di pochi giorni si trova invece a scoprire come i sentimenti espressi nelle lusinghe siano poco cristallini: Goneril e Regan rivelano il rancore e la prepotenza, di chi rimane concentrato solo su di sé, attraverso un crescendo di violenze ed abusi.
A questo punto la stucchevole diatriba tra regnanti assume sempre più i toni di un’umiliante e frequente vicenda famigliare, secondo la interessante lettura datane nell’adattamento di Letizia Russo e nalla regia di Andrea Baracco.
Kent (Enzo Curcurù), un nobile amico del Re messo al bando insieme a Cordelia, ama il suo sovrano perché ne ha conosciuto anche la grandezza e ritorna ad assisterlo con leale fedeltà travestito da Caio, per proteggerlo da ulteriori abusi e consigliarlo, insieme al Matto giullare (Dario Cantanelli).
Nel frattempo, Goneril e Regan sono spinte verso la lussuria dall’ebrezza del potere che lascia credere qualsiasi cosa e litigano per accaparrarsi i favori sessuali di Edmund (Aleph Viola), figlio illegittimo del conte di Gloucester (Roberto Sturno).
Esse sembrano occuparsi più dalla propria vanità che preoccuparsi dell’esercito inviato dal re di Francia, guidato da Cordelia che intende ricollocare Re Lear sul trono. La guerra devastante e la tempesta, che contemporaneamente si scatena, sono la rappresentazione shakespeariana del dramma materiale e morale al quale gli uomini si condannano con frivola noncuranza.
Shakespeare è lucido e lungimirante anche nelle considerazioni sul tema delle convenienze politiche: in tutti i lavori teatrali, egli insinua l’idea – da noi condivisa – che sia sempre possibile mantenere elevate le qualità morali anche nel perseguire i propri interessi; cioè che sia possibile gestire il proprio potere con giustizia e lealtà. A questo scopo inserisce nel dramma antico la trama secondaria dei conti di Gloucester, per altro storicamente plausibile.
Per avidità ed invidia, Edmund secondo figlio del Conte di Gloucester, ha diffuso racconti calunniosi sul fratello Edgar (Francesco Sferrazza Papa) costretto alla fuga e al travestimento come Tom, il pazzo di Bedlam, figura proverbiale al tempo di Shakespeare, che faceva riferimento al Bethlem Royal Hospital di Londra, il Bedlam, una delle più antiche istituzioni (1243) che funzionava come ostello per i senzatetto e i malati mentali.
L’invidia verso il fratello, e la brama del potere, spingono Edmund ad utilizzare la propria avvenenza per lusingare e sedurre le due regine Goneril e Regan; ottiene il loro favore e tradisce fratello e padre al fine di usurparne titolo e beni.
Il duca di Cornovaglia (Francesco Martucci), sobillato dalla moglie Regan, acceca il conte di Gloucester e lo caccia nella tempesta con l’accusa di essere rimasto fedele a Lear; lo spinge fuori dalla propria casa a “fiutare con il naso la strada per Dover” e ricongiungersi al suo Re, ma paga la prepotenza con una ferita mortale inflittagli da un servitore del Conte.
Regan, rimasta vedova, immagina di concretizzare le proprie brame sessuali e di potere: seduce Edmund e lo pone a capo dell’esercito.
Edgar si aggira come pazzo vagabondo e, nella tempesta, incontra il padre ferito che non lo riconosce; senza rancori decide di guidarlo e proteggerlo, impedendogli il suicidio dalle scogliere di Dover.
Anche Lear si aggira nella tempesta farneticando, ma infine incontra Cordelia con cui si rappacifica poco prima della battaglia decisiva tra Britannia e Francia. Da buon patriota Shakespeare concede la vittoria alla Britannia e alla sua cattiva regina Regan ed Edmund, nuovo comandante dell’esercito, fatti prigionieri Lear con la figlia, ordina che siano giustiziati.
Il modesto, ma giusto, duca di Albany (Paolo Lorimel) in una sopravvenuta consapevolezza morale accusa Edmund di tradimento e lo fa arrestare insieme alla propria moglie Goneril: però invece di avviarlo al patibolo, più lealmente intende sfidarlo a duello a causa dell’offesa personale che peserebbe troppo nel pronunciare un giudizio equo. Prima che inizi lo scontro, appare Edgar – ancora nelle vesti di Tom il pazzo – che affronta Edmund ferendolo a morte. A quella notizia Goneril, che per gelosia aveva avvelenato Regan, si uccide.
Edgar rivela a Edmund la propria identità, per consentirgli la redenzione in punto di morte, e lo informa che anche il loro padre, conte di Gloucester, è deceduto. Nell’apprendere questo e le morti delle sue amanti Goneril e Regan, Edmund si pente e confessa di aver disposto l’uccisione di Lear e Cordelia.
Ormai è tardi per salvare la giovane regina: Lear, che dovrebbe entrare in scena sorreggendo sulle braccia il corpo della figlia, appare sdraiato su di una portantina e morente per il dolore alla vista del cadavere di Cordelia appeso alla corda dell’impiccato.
Infine diviene re colui che si è dimostrato leale e pietoso in ogni occasione, cioè Edgar figlio di Gloucester.
Oltre alla trama secondaria e alla figura del Matto giullare del Re, l’innovazione introdotta da Shakespeare – all’originaria vicenda di Leir – è la morte di Cordelia e Lear che, nella mitologia britannica, invece sopravvivono vincitori, felici e contenti: questa conclusione tragica ricevette molte critiche ai suoi tempi e nei due secoli successivi furono scritte e rappresentate versioni alternative, in cui i due personaggi si salvavano dalla morte e inoltre Cordelia sposava Edgar. Solamente dallo scorso secolo si tornò a recitare il testo originale.
Tutta la drammaturgia di Shakespeare risulta sempre adattata al mondo suo contemporaneo: in questo caso la vicenda delle tre regine ricorda quella delle figlie di Sir Brian Annesley (tribunale di Londra 1604) e, nella simiglianza, lo spettacolo doveva risultare sicuramente accattivante per un pubblico curioso e pettegolo come quello elisabettiano; inoltre l’inserimento del Matto giullare, con le sue battute sagaci e impudenti, consentiva momenti di ilarità agli spettatori, alleggerva il peso drammatico, e metteva alla berlina difetti e vizi della nobiltà, consentendo a tutti di ridere alle spalle dei potenti senza correre il rischio di venire puniti.
In questa edizione del Re Lear, naturalmente alcune scene dello spettacolo sono cucite addosso agli attori principali: Lear-Glauco Mauri non ce la farebbe a sostenere il corpo di Cordelia, perciò la giovane appare impiccata, e Roberto Sturno rende l’interpretazione del ruolo di Gloucester giustamente più centrale magari recitando un breve stralcio dal monologo di Amleto… I due interpreti sono straordinari: la pazzia di Lear è un crescendo di espressioni ed impressioni: gridolini, singulti, voce chioccia di straordinario effetto coinvolgente e trascinante. Roberto Sturno – che a noi ricorda un amico tanto amato, ormai assente – ritaglia un personaggio di efficacia étonnant (stupefacente).
Intorno ai due, gli altri interpreti si esprimono al meglio: le figlie impazzite per l’ambizione, rabbiose e lascive; i due pretendenti alla corona, Cornovaglia e Edmund, avidi e cattivi; Cordelia disperatamente affezionata; il Matto giullare caustico e disincantato; i tre personaggi buoni – Kent, Albany e Edgar – leali, folli e disorientati.
Un appunto facciamo solo alla scena introduttiva, delle dichiarazioni di amore filiale, in cui le riflessioni di Cordelia a noi risultano poco credibili: crediamo di poterne addossare la responsabilità al regista, che lascia intendere non l’offesa di dover competere in lusinghe, ma il timore di non essere all’altezza di tale competizione.
Le scenografie di Maria Crisolini Malatesta, composte di un fondale di porte trasparenti e un praticabile sollevato di un piano, con gradini laterali ed un montacarichi al centro, consentivano tutti i movimenti e la visibilità necessari; i costumi, della stessa scenografa, sono surreali e vanno oltre il tempo; sono stracci o eleganti abiti, semplicemente moderni e antichi nello stesso tempo. Le luci di Umile Vainieri si adeguano alle esigenze sceniche senza cercare effetti o effettoni, a parte il sostegno della famosa tempesta in cui tutti si perdono. Le musiche di Giacomo Vezzani e Riccardo Vanja commentano, con brevissimi accordi appena accennati o ripetuti con meno breve ostinazione, i momenti salienti della tragedia: solo, durante i saluti degli attori al pubblico dopo la chiusura e la riapertura del sipario, una canzoncina dalla musica allegra e sbarazzina in contrasto con le parole del testo, ci ricorda che dobbiamo morire tutti e ci rammenta la famosissima aria del finale nel Falstaff di Verdi “Tutti gabbati“.
Come accade spesso, proponiamo un’osservazione finale per rilevare come, dalla realizzazione scenica, traspaia in maniera a noi evidente un’idea probabilmente shakespeariana: la mancanza di lealtà conduce alla follia. Non è sufficiente recriminare le proprie buone ragioni – come la storia delle due regine e di Edmund lascia intendere – perché la mancanza di lealtà ci lasci indenni: sarà colpa dell’inconscio sociale, del cielo stellato sopra di noi o della legge morale dentro di noi, ma non si può essere sani senza lealtà. Ci abbiamo riflettuto – e lo faremo ancora – anche dal punto di vista clinico: tutti gli esempi che ci vengono in mente lo confermano e ci sembra, persino, che nessun potere ne resti immune e, perciò, raccomandiamo a tutti di denunciare la propria slealtà prima di caderne vittime; non è necessario confessare alcunché; è sufficiente spiegarsi.
pietrodesantis