Dasvidania
Un po’ di tempo fa avevo una paziente bambina – di otto anni – che poi, ovviamente, è cresciuta ed ha fatto un bel percorso. Ora è una brava e affermata psicologa.
Me l’avevano affidata per i suoi problemi di isolamento e di chiusura: aveva paura degli altri bambini e preferiva la compagnia degli adulti e, fatto più preoccupante, esibiva alcuni rituali ossessivi che sembravano incomprensibili e tali da sconcertare. Ad esempio, vedeva sino allo sfinimento, altrui, sempre lo stesso film per ore e giorni; oppure ripeteva alcuni gesti inessenziali: toccare la copertina di un libro, in piedi, allungando e ritraendo ripetutamente la mano per un tempo infinito.
A questa bambina piaceva molto parlare con lo psicologo – che ero io – e raccontare per filo e per segno il film in questione oppure i sogni elaboratissimi, che ricordava o ricostruiva nei particolari infinitesimali come una precocissima Marcel Proust. Ella insegnò allo psicologo – che ero sempre io – il lavoro con i bambini; visto che a lui non piaceva utilizzare i giochi necessari gli insegnò la favola dell’infanzia e il suo teatro.
Un giorno ella decise di dare un chiarimento in merito alla sua frequente stereotipia. Disse che, se le capitava di toccare un libro, per semplice curiosità, si sentiva costretta a toccarlo di nuovo: le sembrava che il gesto del toccare, avesse stabilito un legame. Perciò lei doveva proseguire almeno per un po’ a toccarne la copertina, affinché il libro non soffrisse a causa della sua indifferenza. Quindi il gesto ripetitivo non era né stupido né privo di significato e la riguardava direttamente; l’affetto era per lei.
Questa descrizione del sintomo, fatta dall’interno, ne attribuisce completamente il significato: agli occhi dello psicologo si chiarisce il mondo interiore della bambina ed egli è invitato ad entrare in quel mondo di sofferenza per accompagnarla fuori, pazientemente e con prudenza.
In Dasvidania, libro di Nikolai Prestia, avviene un miracolo del genere: lo scrittore racconta se stesso bambino – nel periodo che va dai cinque agli otto anni – e la sua vita dentro agli orfanatrofi, uno in particolare: l’ultimo.
Il disvelamento di cui sopra riguarda tre stereotipie: la prima si manifestò durante un ricovero ospedaliero, durato tre mesi, a causa di una febbre altissima e persistente, della quale il bambino non sa dire e perciò lo scrittore non dice. Il passatempo preferito era scivolare sulle ginocchia per ore, avanti e indietro, nel corridoio dell’ospedale immaginandosi fuori, libero in mezzo alla neve, lanciato sugli sci.
La seconda esprimeva una fobia che si manifestò alla fine di un periodo in cui nervosismo e paura erano improvvisi e intensissimi: essa lo condusse ad un altro ricovero nel reparto psichiatrico, ai colloqui psicologici, al ricordo traumatico di un abuso sessuale – da parte dello zio materno – il cui racconto risultò liberatorio.
Oltre alla sorellina, compagna di orfanatrofio e poi di adozione, altri personaggi si esprimono nei ricordi: la madre Irina, divenuta nella mente una mela verde – unico dono avuto da lei prima della scomparsa – che il bambino, per tre anni ogni giorno portava in camera dalla mensa, per parlare affacciato alla finestra; l’anziana zia materna, che ogni fine settimana, per tre anni si occupò di loro; il direttore dell’orfanatrofio, paziente e comprensivo, capace di amare tutti i suoi bambini e cercarne una felicità futura; lo zio autore dell’abuso che regalò a Kola una camicia da uomo, prima di sparire nelle carceri; i tre compagni di stanza, con i quali condivise quel periodo doloroso, talvolta anche felice.
La narrazione si interrompe con l’ingresso dei genitori adottivi, due insegnanti di Palermo, nei confronti dei quali esplode immediata la carica affettiva. Ognuno dei personaggi ricordati si commiata con un addio: Dasvidania! parola che coglie le sfumature più emozionanti: amore, dolore, speranza, augurio…
L’ultimo, il più sentito, è il saluto dei compagni di camera che, rincorrendo il taxi riempito dalla nuova famiglia, gridano l’amore, la gioia, l’invidia e il dolore.
Il libro è bello e poetico, con sprazzi psicologicamente rilevanti; in alcuni capitoli, è vero, si abbassa un po’ il livello rasentando, dall’alto, la semplice cronaca di un diario redatto per dovere. Però riprende quota nei capitoli conclusivi per arrivare ad un finale dolorosamente lieto e al commiato di una poesia preziosa, che parla del coraggio: il coraggio di una madre di non abbandonare i figli; il coraggio di un padre di non abbandonare la moglie; il coraggio di un’anziana zia di abbandonare, invece, i nipoti in vista di un destino migliore; il coraggio di chi assiste gli orfani considerando la loro pienezza di bambini; il coraggio di un regalo non dovuto, fatto per alleviare una sofferenza.
È un libro che consiglio ai genitori – siano o no adottivi –; è un libro che consiglio alle/agli insegnanti, per capire che i problemi emotivi esistono, sono di ostacolo all’apprendimento e non una specie di pettegolezzo; è un libro che consiglio agli psicoterapeuti affinché capiscano meglio il significato dei sintomi nevrotici, nell’intero loro contenuto di vita vissuta.