Le sette opere di misericordia corporale
Ho avuto una doppia vita, di insegnante di elettronica e psicoterapeuta: la prima, grazie ad una laurea in fisica delle particelle elementari; la seconda, per una laurea in psicologia seguita da una scuola di psicoterapia. Come insegnante ho potuto usufruire degli strumenti offerti dall’altro ruolo, che talvolta hanno prodotto un eccesso di aspettative. Ho avuto il privilegio di partecipare alla fondazione dell’IPRS nel 1987.
Mi è accaduto di avere svolto il ruolo di commissario d’esame in un istituto tecnico industriale, che aveva una sezione distaccata all’interno di una casa circondariale: il carcere. Da questa esperienza è scaturito il romanzo breve Grazie, professore.
Per quanto ritenga la mia visione del mondo piuttosto laica, ho sempre apprezzato la complessità piena di contraddizioni della cultura cattolica. Per questo, al ricevimento della nomina, fu un pensare automatico il ricordo delle sette opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli ammalati; visitare i carcerati; seppellire i morti.
Il loro elenco, mandato a memoria al tempo del catechismo, non è poi così banale; considerate le tante opere artistiche che hanno ispirato, esse rappresentano, più o meno, i principi che guidano all’inclusione degli emarginati. L’animo cristiano mi faceva immaginare che avrei visitato carceri e carcerati e avrei fatto qualcosa a favore della loro inclusione: in quello stesso momento e, in modo perlomeno simbolico, nel loro futuro.
Insieme a questo pensiero, di stampo buonista, ne appariva uno più amaro verso la società civile – intesa come totalità degli individui e come insieme delle istituzioni – che con la mano destra sicuramete esclude e con la sinistra tenta di includere ex novo. Forse si tratta di un processo schizofrenico inevitabile.
Nel mio racconto, il professore è un protagonista ingenuo ma non troppo, visto che pone a sé stesso e agli altri domande banali che costringono ad una riflessione. A titolo di esempio: uno dei candidati è un transessuale e le docenti dell’istituto, durante la riunione preliminare, invitano – con atteggiamento rispettoso della persona – ad usare il nome femminile Gloria “perché sembra proprio una ragazza“. A questo punto il professore domanda se Gloria sia collocata nella sezione femminile. La risposta era ovvia: Gloria stava nella sezione maschile. Alla perplessità collegata al fatto che volesse essere donna, le professoresse risposero seccamente che – comunque – si trattava di un maschio. Aggiunsero che la casa circondariale forniva i farmaci ormonali di cui ella aveva bisogno per completare il percorso e soprattutto, non star male fisicamente. L’ultima parte del discorso esprime un rispetto alla persona, dell’istituzione carceraria, molto meno ovvio di quanto non si creda; la prima parte lascia invece molti dubbi.
Comunque, lasciando il professore alle sue sette opere di misericordia corporale – ispirato anche dal famoso quadro di Caravaggio -, lo psicoterapeuta osserva la vicenda di quell’esperienza formativa attraverso due punti di vista complementari: sociale e individuale.
Si mettevano in evidenza tre ambiti separati: il mondo conosciuto, quello sconosciuto e quello posto nel mezzo. Il mondo conosciuto appartiene al professore; si tratta del suo mondo: lavora, torna a casa, incontra gli amici, va al cinema e pensa che, grosso modo, quello stile di vita sia simile per tutti. Si tratta del mondo dell’inclusione, al quale eravamo abituati fino a un paio d’anni fa.
Poi c’è il mondo sconosciuto, quello dei candidati: sconosciuto, non tanto per ciò che riguarda un passato oggettivo più o meno traumatico oppure per i ricordi personali, ma piuttosto nei confronti di una quotidianità che egli non conosce proprio; infatti compie l’errore di immaginarla simile alla sua.
Infine, c’è il mondo posto in mezzo, in cui professore e candidati si incontrano: esso è popolato di tante altre figure che non sono state scelte, che non si possono scegliere, che sono comandate.
Il professore utilizza la metafora del cappuccino: egli può scegliere il luogo dove prenderlo e lo fà in base ai profumi, ai dolciumi esposti, all’arredamento. Nella casa circondariale c’è un unico bar, in cui tutti si accalcano e sgomitano: quello diventa il luogo dell’invidia e della rabbia, non già del desiderio. Per quanto riguarda i suoi candidati, che non possono accedere neanche al bar interno, in quanto reclusi, non sa nemmeno se possano permettersi di ottenerlo, un cappuccino.
Le altre considerazioni del professore riguardano gli aspetti emotivi che lo hanno accompagnano. Egli immagina un percorso psicologico composto di sette passaggi, forse perché ama il numero 7: pregiudizio, diffidenza, incontro, ascolto, riconoscimento, progetto educativo, crescita culturale. Il pregiudizio è apparso nel momento in cui ha letto la nomina; la diffidenza quando ha letto le schede di presentazione dei candidati; l’incontro è stato con persone reali; l’ascolto ha evidenziato il senso delle loro parole; il riconoscimento ha delineato una loro individualità; il progetto educativo si è modellato sulle loro personalità e capacità; infine, la constatazione della “propria” crescita culturale, ha consentito al professore di comprendere la crescita culturale dei candidati.
Perché ho scelto di non scrivere un articolo, oppure un saggio? Ho dato ascolto al professore: egli mi ha confidato che sarebbe andato perso il lavoro emotivo, sottostante a quello analitico; poi, ha aggiunto, un racconto avrebbe raggiunto un numero maggiore di persone – almeno così sperava – con cui condividere i contenuti e le suggestioni scaturiti dalla sua esperienza formativa.