Diamanti

Diamanti

Un film meraviglioso: “Diamanti” di Ferzan Özpetek | con Paola AndreoniDa bambino desideravo un potere assoluto: affettivo, intellettivo e materiale; andando avanti nel tempo mi sono reso conto di quanto sia frivola questa posizione. In particolare ne ho preso atto una domenica pomeriggio discutendo con il mio maestro (Sandro): io sostenevo con calore che tutti vogliono essere al centro dell’attenzione ed egli replicava di non nutrire per niente questo desiderio, contraddicendo un’evidenza eclatante perché egli era – realmente – al centro delle attenzioni di molti. Dal disorientamento iniziale alla comprensione il passo fu (abbastanza) breve per fortuna… L’ulterione consapevolezza comportò la rinuncia alle fantasie onnipotenti e fu una conquista incerta e lenta.

Ho imparato che l’emancipazione dal desiderio del potere (eccessivo) regala un potere, più piccolo ma reale: qualcuno se ne accorge. Il potere troppo desiderato è effimero, dura solo l’éspace d’un matin: quel breve (lungo) periodo è drammatico per le responsabilità che comporta; perciò non amo il potere.

Quando facevo il professore, la dirigente mi accusava di non sopportare l’autorità femminile; le replicavo di non tollerare nessuna autorità, nemmeno la mia: già da allora mi sembrava un po’ troppo ingenuo attribuire un valore rivoluzionario a un potere femminile o femminista. Il film Diamanti, nonostante l’ingenuità dell’ipotetica posizione femminile o femminista, mi ha lasciato però un gran piacere rilassante. Penso che derivi dall’apprezzamento dell’emancipazione: nella sceneggiatura si descrive un gruppo di persone, in questo caso donne, sperimentare porzioni di libertà individuale, economica e affettiva, in un periodo in cui ciò era “quasi” impossibile. Ho provato gioia perché anche io, come Ferzan Özpetek, ricordo ragazze ricattate da padri e mariti che facevano leva sull’aspetto economico, che diventava immediatamente motivo morale: l’impossibilità di comperare liberamente un paio di calze di seta si trasformava in vergogna per averle desiderate; l’obbligo a prostrarsi di fronte a stupide irritazioni maschili sembrava gesto amorevole; la rabbia sorda e impotente alimentava il senso di colpa e di inferiorità; l’ingiustizia più palese di fronte all’arroganza condita di altrettanta impotenza, sembrava (sembra?) una legge naturale. Naturalmente non ignoro, e nemmeno ignoravo, la prepotenza femminile e gli strumenti di ricatto che le sono tipici: nel film quelli non appaiono perché l’autore sceglie l’ottica del femminile, profondamente nobilitata dalla ricerca del bello.

Dello spessore del film si è avuto sentore subito perché viene raccomandato da molti spettatori come qualcosa da vedere necessariamente: si tratta di una reazione che si verifica con relativa frequenza quando un’opera d’arte o uno spettacolo si annuncia con una propria forza interiore.

La storia si introduce con la sceneggiatura di una sceneggiatura (una intersezione del teatro di tipo due con il teatro di tipo tre, proporrei cripticamente seguendo un’idea del mio maestro) ed ha un forte effetto coinvolgente: il regista convoca le sue attrici preferite “con cui ha lavorato e che ha amato” per fare un film sulle donne; insieme a loro ha chiamato due “non attrici” di talento, che sono Mara Venier (Silvana) e Geppi Cucciari (Fausta). Le osserva e si lascia ispirare dalle loro reazioni: l’adesione alla proposta catapulta la troupe e gli spettatori in un’altra epoca, in un passato in cui il rumore delle macchine da cucire riempie di magie il luogo di lavoro popolato da donne; nel quale gli uomini hanno solo ruoli marginali. Siamo in una sartoria teatrale e cinematografica: lo spettacolo del cinema viene raccontato dal punto di vista del costume e della vita sociale; gli abiti devono rispecchiare l’anima dei personaggi da interpretare ma parlano anche degli artigiani che li assemblano perché realtà e finzione si sovrappongono.

La datazione della storia è precisa: 1974; lo si capisce non dalle ambientazioni – automobili, vestiti e quant’altro – ma da un  episodio in cui Alberta Canova (Luisa Ranieri) capo della maison di moda, accortasi della presenza di una giovane scappata dalla polizia, Beatrice (Aurora Giovinazzo), accende la televisione per sentire le notizie degli scontri e c’è lo show di Mina “Milleluci”. La notizia storica non è così importante; lo è invece la considerazione che in quel periodo esistevano pochissime attività prettamente femminili, nelle quali le donne riuscivano ad essere autorevoli e ad esprimere un potere importante, principalmente su altre donne.

Come il piccolo Simone, bambino del film che forse rappresenta lo stesso regista, anche io sono stato spettatore in una simile ambientazione da gineceo: mia zia lavorava da sarta, in un paesone della provincia romana, con un piccolo gruppo di aiutanti. Quando veniva “la contessa”, una nobile di paese, si respirava un po’ di quell’aria raccontata nella pellicola che, forse anche per questo, mi ha suscitato un po’ di nostalgia. In quell’ambiente era importante l’ascolto: qualcuna delle ragazze, nelle pause, raccontava di sé oppure di un film visto al cinema o di un ragazzo desiderato…

Il fatto più importante del film è dato dall’ascolto (dai piani d’ascolto), dall’attenzione e dalla reazione a ciò che dice l’altro: l’intensità scaturisce anche da questo.

La storia narrata è un semplice pretesto utile a descrivere un mondo e a farlo muovere: Alberta Canova accetta di preparare gli abiti di un film per collaborare con Bianca Vega (Vanessa Scalera) costumista di Lorenzo (Stefano Accorsi), regista che ha vinto un Premio Oscar. L’imprenditrice accetta di affastellare addosso alle sue collaboratrici una quantità di lavoro enorme, stimolando la sorella Gabriella (Jasmine Trinca) – disegnatrice dei modelli – e tutte le ragazze ad una responsabilità quasi drammatica.

Nel frattempo accadono le cose della vita: Gabriella non riesce a dimenticare la morte della figlia ed ogni sera ripete il rituale del lutto con il consapevole e affettuoso marito Lucio (Luca Barbarossa); Fausta (Geppi Cucciari) coinvolge due aitanti facchini in serate a tema sessuale; Eleonora (Lunetta Savino) sviluppa la sua relazione segreta con Ennio (Edoardo Purgatori), giovane tuttofare della maison; Nina (Paola Minaccioni) ha il suo da fare per convincere il figlio anoressico e quasi catalettico ad uscire dalla stanza e a riprendere la vita, con la collaborazione di un marito (Nino, Valerio Morigi) buono, ma privo di idee e alieno alle responsabilità; Nicoletta (Milena Mancini) ha il suo dramma familiare nello scontro con il marito Bruno (Vinicio Marchioni) che si ripete ogni sera in una sorta di prepotenza brutale; Paolina (Anna Ferzetti), ragazza madre, annaspa con il piccolo tranquillissimo Simone, i cui occhi sono carichi di interesse e curiosità e lo nasconde nelle stanze della maison durante l’orario di lavoro grazie all’aiuto di Silvana (Mara Venier), che accudisce tutti come una zia; ci sono le difficoltà tecniche della tingitrice Carlotta (Nicole Grimaudo) e della costumista teatrale Franca Zinzi (Giselda Volodi). Si svela improvvisa una storia d’amore antica – l’unica che abbia coinvolto Alberta Canova – con il serio imperscrutabile di Leonardo Cavani (Carmine Recano), investitore che si interessa della maison per rinnovare un rapporto sentimentale impossibile o, forse, per fornire alla bella manager una spiegazione risanatrice. Infine – però sovrastano tutto – ci sono le difficoltà professionali che coinvolgono la costumista Bianca Vega (Vanessa Scalera), il regista Lorenzo e due attrici rivali: Alida Borghese (Carla Signoris), diva teatrale, e Sofia Volpi (Kasia Smutniak), star del cinema.

In questo particolare microcosmo, le figure maschili risultano quasi accessorie perché, forse, il regista separa “i due sessi” in due universi paralleli: il nervosismo disorientato del grande regista; l’affetto calmo e triste di Lucio; la paralisi del pensiero di Nino; la violenza criminiale di Bruno; la prestanza fisica dei due inservienti e di Ennio; la serietà drammatica di Leonardo sono elementi importanti, danno profondità alle storie ma la loro assenza non modificherebbe di un millimetro la struttura complessiva. Triste primato maschile è stato quello di incidere poco – o negativamente – nelle strutture famigliari… La pubblicità, attualmente, propone il recupero differenziale delle relazioni domestiche tra padri e figlie, lasciando i figli maschi in una sorta di limbo.

Le dinamiche proposte nel film si concretizzano intorno al tavolo: quello della lettura del copione e la tavola imbandita per il pranzo annuale della maison, al quale non si deve rinunciare a dispetto di tutto. Mangiando insieme, i nodi si sciolgono in un finale trionfante fatto di fatica e di amore: per la storia della maison, per la vita quotidiana, per la condivisione della bellezza.

Altre figure sono importanti nel film: Ferzan Özpetek che è interprete di se stesso (forse è il piccolo Simone diventato adulto); Milena Vukotic (zia Olga) che fornisce uno spessore familiare alle sorelle Canova ed Elena Sofia Ricci: ella avrebbe dovuto recitare la madre di Alberta e Gabriella, ma ha declinato per assistere un’amica malata. Espediente artistico oppure realtà, il regista la coinvolge nella scena conclusiva: le fa indossare un vestito bellissimo e la propone bellissima – come è di fatto – per arricchire di nostalgia la profondità della storia perché la magia di un film non sta solo in quello che si vede, ma anche in quello che si sente.

Nella colonna sonora figurano tante canzoni che hanno fatto la storia della musica italiana e del cinema; in particolare c’è Mina: riprende Mi sei scoppiato dentro il cuoreLe Mattchiche e propone l’inedito L’amore vero. È inedita anche Diamanti, eseguita da Giorgia, mentre Gli occhi dell’amore è un successo di Patty Pravo.
A me viene spontaneo associare a questa pellicola altri due lavori altrettanto intensi: Hamam e Le fate ignoranti; il primo per la scoperta di quanto sia importante la bellezza e il rispetto verso le cose e le persone; il secondo per l’amore verso la vita e il valore fondamentale del gruppo amicale, soprattutto quando si riunisce intorno ad un tavolo. Magari ancora altri piccoli particolari…
Il regista dedica il film a Mariangela Melato, Virna Lisi e Monica Vitti, oltre che a tutte le donne.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *