Il Vangelo secondo Pilato
di Eric-Emmanuel Schmitt
Compagnia Mauri Sturno
a Roma, Teatro Valle, fino al 14 dicembre ed in tournée in Italia
Era una piovigginosa serata invernale lo scorso giovedì 4 dicembre, quando andammo al Teatro Valle per vedere Glauco Mauri, in una nostalgica Roma, e c’era un pubblico insolito.
Eravamo seduti in quarta fila: alla nostra sinistra due sacerdoti in clargyman, un po’ pingui; alle nostre spalle, discorsi di intellettuali cattolici stimolavano la nostra curiosità: molti erano venuti per sentire parlare di Gesù.
Abbiamo osservato meglio i vestiti piuttosto sobri, leggermente sottotono rispetto alla mondanità esibita generalmente nei teatri.
Si è aperto il sipario su di un accordo orchestrale svelando una scenografia semplice: le tavole del palcoscenico erano completamente ricoperte di tela bianca; due larghe strisce dello stesso tessuto, come quinte, pendevano dall’alto incorniciando con un simile arlecchino bianco una scena nuda.
Al centro era una panca di legno.
È entrato Glauco Mauri ed ha iniziato la sua interpretazione di Gesù che racconta i propri ricordi in attesa di Giuda, sul Monte degli Ulivi: ricordi d’infanzia, di giochi e di paure e del rapporto affettuoso con il “padre” Giuseppe.
Sono nostalgie di un Gesù fortemente umano, che trascorse la giovinezza immerso nei giochi e nelle sacre scritture come molti; ebbe turbamenti sessuali come molti e – posto di fronte alla scelta di soddisfare le proprie esigenze o lenire le sofferenze altrui – optò per questa seconda strada: unica, coraggiosa, teatrale e definitivamente adolescenziale.
Lì, tra gli ulivi, nell’attesa drammatica di sofferenza e morte, ripensa sgomento ai miracoli compiuti (stupefacenti per Lui stesso) e rammenta le parole di infinite richieste d’aiuto, d’amore.
Ricorda soprattutto i lunghi momenti di isolamento, durante i quali, nel deserto, cercava di comprendere se stesso, la propria natura. Ricorda infine la strana intesa con Giuda: il tradimento, inevitabile per entrambi.
Il secondo atto si apre di nuovo su accordi orchestrali: è scomparsa la tela bianca ma ora la scena è incorniciata da drappi rosso cupo; gradini bianchi salgono verso il fondale. Al centro del palcoscenico un triclinium coperto da tessuto porpora; ai lati del boccascena, e poggiati su altro tessuto, a destra un cesto di frutta caravaggesco; a sinistra un’anfora dal collo sottile insieme ad un calice, dalle forme eleganti.
I pochi elementi di scenografia richiamano la ricchezza e lo sfarzo imperiali, in contrasto alla semplice povertà dell’ambiente precedente. Entra Pilato, Roberto Sturno, insieme con lo scrivano Sesto, Marco Bianchi: il leggio su cui Sesto scrive è prezioso, come pure la carta che lascia immaginare fogli di papiro intrecciato e pressato.
Pilato scrive al fratello raccontando lo strano caso della condanna ed esecuzione di Gesù, del quale è stato trafugato il corpo: in qualità di Governatore della Galilea egli ha l’obbligo di ritrovare il cadavere, per evitare che si scatenino tumulti tra la popolazione visto e considerato che “lo stregone” promise di risorgere.
La ricerca poliziesca di Pilato si fa affannosa e si infrange contro racconti di altri e nuovi prodigi: gli avvistamenti di Gesù o di un suo sosia; l’arrivo di stuoli di persone a Gerusalemme per cercare il “risorto”; la stessa richiesta dello scrivano Sesto, cultore di vaticini ed eventi miracolosi, di recarsi a Damasco ad attendere il “nuovo” Re, che avrebbe appena compiuto trentatré anni.
I propri dubbi, come Pilato riferisce al fratello, rallegrano il cuore della moglie Claudia, anch’ella seguace di Gesù e da Lui guarita, che ritiene l’indifferenza l’unica colpa ed il dubbio l’inizio della fede. Su questa inesaurita “ricerca” di Gesù e con quelle ultime frasi si chiude il sipario.
Prima di tentare brevi ragionamenti sul testo e sull’autore, dichiariamo di avere assistito ad un miracolo autentico: il miracolo del Teatro. Quello di Glauco Mauri è teatro antico e sempre moderno e contemporaneo; teatro che è anche rito: “La cultura popolare è da moltissimi secoli una cultura teatrale; questo teatro ha trovato una delle sue espressioni più concrete nella religione. Sacrificando il «tragos» a Dioniso il sacerdote narrava e mimava una storia.” (Sandro Gindro, Eros e Bios, Psicoanalisi Contro Anno 2 n.1, 1978).
Quando Glauco Mauri, capelli bianchi, barba bianca e veste bianca, è apparso sulla scena per raccontare i “suoi” ricordi interpretando Gesù, nessuno – crediamo – abbia percepito la “differenza” d’età tra i trentatré anni del personaggio drammatico ed i più di settanta anni del suo interprete; né questo, pensiamo, abbia intaccato l’iconografia del bel Giovane con la barba bionda (forse) o nera (più probabilmente) che ciascuno di noi porta dentro. Il miracolo del teatro è questo: un signore di settanta anni “è” – per cinquanta minuti – un giovane di trentatré anni.
Allo stesso modo la ricerca “poliziesca” di Pilato era attuale ed appassionante, proprio come se avvenisse per la prima volta dinanzi ai nostri occhi: ed in effetti appariva anche nuova, e mai sentita, sia per merito degli attori, il grande Roberto Sturno e il validissimo Marco Bianchi, sia per merito dell’autore Eric-Emmanuel Schmitt e della cura con la quale erano stati predisposti l’apparato scenico e le soluzioni registiche.
Per quanto essenziale, la scenografia di Mauro Carosi era di efficacia pari alla recitazione come lo erano i costumi di Odette Nicoletti – ricchi ed accurati nei particolari – pieni di gusto anche nella semplicità della veste “greca” di Gesù; solenni i pochi accordi musicali di Germano Mazzocchetti.
Abbiamo trovato azzeccata, nell’intenzione scenografica, il richiamo al Barocco ed in particolare al Caravaggio: i chiaroscuri caravaggeschi (ad esempio nella Vocazione di San Matteo o nella Caduta di San Paolo o nella Cena in Emmaus) ben si attagliano a questo lavoro teatrale sulla ricerca interiore ed esteriore dell’uomo verso Dio o verso la sacralità della vita.
Tanti applausi e “tre” inchini di rito in ringraziamento al pubblico, accennati con il capo, hanno coronato la fatica degli attori.
La pièce di Schmitt è stata adattata da Glauco Mauri dalla traduzione di Stefania Micheli e si compone di due atti unici.
Nel prologo drammatico “La notte degli Ulivi” l’autore si avventura in una specie di autoanalisi di Gesù, uomo travolto dalla bellezza del mondo, dalla verità della sofferenza e dell’amore, dal suo stesso non sapere chi sia: “La gente chi dice che io sia?” domanda ai suoi compagni che immagina, persino, abbiano “falsificato” lo straordinario miracolo dei pani e dei pesci.
La drammatica introspezione corrode la nostra stereotipa immagine del Dio-Uomo distaccato dal mondo, che conoscendo tutto prima ancora che qualsiasi cosa accada, risulta per noi rassicurante ed assolutoria. Anche grazie all’interpretazione proposta da Glauco Mauri emerge invece un ritratto pieno di freschezza adolescenziale e misericordiosa, che guarda con rammarico ai peccati, come ad occasioni perdute di felicità.
L’altro dramma “Il Vangelo secondo Pilato” illustra una diversa ricerca di Dio: quella operata, faticosamente da un uomo reso indifferente al dolore altrui, per il semplice esercizio del potere – potere anche piccolo o piccolissimo della vita quotidiana –, e non più in grado di vedere oltre i propri interessi: per quest’uomo l’unica possibile salvezza è il dubbio.
Eric-Emmanuel Schmitt si inserisce nella scia di quel novero di letterati-filosofi presenti nella cultura francese del novecento: basti citare Georges Bernanos ed lo splendido “Diario di un curato di campagna” cui, inevitabilmente, è andato il pensiero assistendo allo spettacolo teatrale. All’uscita, i due preti nostri vicini di posto erano contenti di come fosse stato presentato il loro “Capo”.
(Pietro De Santis)