La vera storia del brigante Davidde
regia di Oberdan Cesanelli
Associazione Culturale Compagnia delle Rane
Teatro Comunale di Morrovalle (MC) – sabato 27 e mercoledì 31 marzo
Ho seguito (indirettamente) l’attività della Compagnia delle Ranesi sin dalla nascita – anzi da prima – ed ho iniziato ad interessarmene proprio in coincidenza del saggio teatrale “La leggendaria storia del brigante Davidde”, scritto e recitato dagli allievi di un corso, cui si fa cenno nel programma di sala. Si era verificato un insieme di coincidenze che mi piacque e da allora ho preso a considerarmi “amico” dell’Associazione, e del Teatro di Morrovalle che sta proprio dietro casa mia, anche per motivi di contiguità territoriale.
Per parlare dello spettacolo di questa sera comincio perciò da lontano, da quel 2003 (credo) cui si fa cenno, anche se non ebbi modo di assistere allo spettacolo itinerante. Però me ne parlarono ed io mi domandai come mai, ad un gruppo di giovani degli anni duemila, fosse venuto in mente di costruire una storia sul fenomeno, così lontano, del brigantaggio.
Il primo ragionamento si indirizzò verso l’idea dell’attaccamento alle origini ma, obiettivamente, non mi risultava che il territorio marchigiano si fosse distinto in particolare per la presenza dei briganti più di altre regioni, anzi… casomai, in questo territorio, più peculiare è stata la tradizionale fede nella stregoneria (femminile) e nelle pratiche di magia (fatto che ho potuto constatare di persona e di cui è dato anche un cenno nello spettacolo).
Un secondo ragionamento mi sembrò più convincente, pur nella sua generalità: la tradizione del brigantaggio, che è una caratteristica del territorio nazionale italiano e in particolar modo del centro sud, fa parte del nostro inconscio sociale (e non erroneamente, come direbbero alcuni, dell’immaginario collettivo): nostro, intendo, in quanto italiani.
Mi ero infatti rammentato di una lettura molto interessante: “Promedades dans Rome” in cui Stendhal raccontava la Roma del 1828 e la vita sociale nello Stato Pontificio. Riferiva l’autore di una conversazione molto interessante, per lui divertente, avuta con un famoso cardinale nel corso di un ricevimento, nella quale il porporato narrava di un contadino che si era rifiutato di pagare le tasse poiché non era riuscito a derubare nessun viandante per parecchi mesi. La naturalezza della dichiarazione costituiva motivo d’interesse: il contadino riteneva le tasse un furto e, per farvi fronte, intendeva ricorrere ad un altro furto. Aggiungeva, in conclusione, che avrebbe preferito derubare un prete: così il cerchio sarebbe stato perfettamente chiuso.
Nella tradizione iconografica del brigantaggio è d’altronde evidente una costante, da Robin Hood (personaggio forse realmente esistito) in poi: si produce un’ingiustizia sociale, per la quale un uomo coraggioso e stimato inizia una ribellione contro il potere costituito e la società che lo sorregge (i ricchi).
Bisognerebbe parlare a questo punto del Processo si Civilizzazione e dei Monopòli di Violenza e Finanze ma, senza farla troppo lunga, è facile accorgersi che ragionamenti simili, a quello sopra accennato, vengono proposti tutt’ora e si configurano proprio nella forma della ribellione al potere costituito: in conclusione il brigantaggio esiste ancora, solo che ha cambiato nome.
Sia ben inteso che io non sto parlando di mafia o ‘ndrangheta, bensì dei tentativi di truffa ai danni dello stato (e della società che lo sostiene) che molti di noi perpetrano convinti di essere nel pieno diritto della ribellione a causa degli immancabili soprusi.
Perciò attraverso la storia vera o leggendaria del brigante Davidde si esprime il nostro inconscio sociale e, in questo caso, anche l’inconscio individuale dei componenti la Compagnia delle Rane e del loro bravo Regista.
Lo sviluppo dello spettacolo è il seguente: un cantastorie-imbonitore (Noam Prosperi) invita il pubblico ad entrare e ne distrae l’attesa proponendo stornelli e battute e promettendo di raccontare una storia vera e falsa insieme (promessa poi non mantenuta).
Si apre il sipario su una bella invenzione scenografica: un albero che si trasforma in tre streghe (Graziella Delmonte, Eva Delmonte, Marianna Domesi) che cantano, ballano e si dimenano con una dose di sensualità, intonando una strana nenia attraverso la quale richiamano il potere di due elementi fondamentali della natura, l’acqua ed il fuoco.
In quella arrivano dalla platea un uomo ed una donna (Massimo Guglielmi e Marina Stortini) che, rappresentano un po’ troppo il Giuseppe e la Maria di Gozzaniana memoria: cercano aiuto per il parto. Le streghe tentennano tra maledizioni e fantasie di appropriazione (del nascituro), ma arriva un’altra coppia (Lucia Balzi e Michele Palmieri) e le streghe scompaiono all’interno del loro albero (che raffigura la Leopardiana natura matrigna).
A questo punto si compie la divertentissima nascita del futuro brigante: lo affermo con ironia, perché gli uomini presenti all’evento ordinano alle donne di fare quel che debbono, guardandosi bene dal prestare qualsiasi aiuto, esattamente come accade nella realtà quotidiana. Rientra (per l’ultima volta) il cantastorie che dichiara l’inizio della vita di Davidde e scompare (trasformandosi in numerosi altri personaggi).
Ci si ritrova in un’osteria in cui uomini e donne si dedicano alle tipiche volgarità: c’è anche Davidde (Marco Cusmano) e la sua futura donna (Federica Sacchini) proprietaria e maîtresse della stamberga.
Davidde reagisce all’insulto che un avventore rivolge alla proprietaria e lo uccide al termine di una rissa un po’ sbrigativa: si appropria del coltello (strafinto) di quello e si dà alla macchia spinto dall’incitamento di tutti i presenti. È diventato un brigante.
Un ufficiale-giudice (Giampaolo Fermanelli) appare ritualmente sul palcoscenico a leggere i successivi bandi che innalzano il premio per la sua cattura man, mano che le malefatte aumentano.
Dapprima c’è una fulminea incursione in una festa di nozze (fulminea è il termine adatto visto che la scena durerà si e no trenta secondi) per rubare la monete della dote senza stuprare la sposina; poi una seconda irruzione in casa di un losco mezzadro, avido e avaro (autocritica?).
A questo punto, la bella scena delle lavandaie (Lucia Balzi, Liliana Ciccarelli, Eva Delmonte, Graziella Delmonte, Marina Stortini) sancisce l’unione tra Davidde e la proprietaria dell’osteria che, insuperbita dal potere acquisito, deride le donne ma viene da queste insultata e trattata da “puttana” e infine difesa dall’ormai prepotente brigante. Si tratta di un siparietto ben recitato, con una scena corale, fronte al pubblico, ed una bella nenia melodica (forse tradizionale), ostentata però troppo a lungo, vista la ripetitività e la scarsa incisività rispetto alla storia.
Altra scena divertente (ma assolutamente pleonastica) è quella della sfida pugilistica tra un giovane boxeur psuedo-francese (Michele Palmieri) e tutta la comunità Morrovallese, che finisce con l’aggressione sleale di Davidde attratto da un prosciutto e da un fiasco di vino, ma incapace di accettare una sconfitta (perciò pronto a candidarsi per un importante ruolo politico).
C’era anche stata, ma non so più collocarla temporalmente, una divertente minaccia di ricatto, scritta ad un parroco, che rispondeva per lettera invitando Davidde a tagliargli il suo “capo di cazzo” poiché tanto non avrebbe ottenuto niente.
Ma la goccia che fa traboccare il vaso – e conduce alla sconfitta del brigante – è l’onta cui espone il viceprefetto (Fratesco Berto) facendogli calare i pantaloni pubblicamente, gesto che conclude un’incursione nella platea del teatro da parte di tutti gli interpreti maschili (Giampaolo Fermanelli, Giampaolo Fioravanzo, Marco Guglielmi, Federico Mancini, Michele Palmieri, Noam Prosperi, Stefano Romagnoli): come briganti che roteano minacciosamente e pericolosamente (per il pubblico) i propri bastoni. Immagino che questo epilogo debba significare che la Legge tollera qualsiasi abuso, purché non sia rivolto ai propri rappresentanti (!).
Dopo uno scontro piuttosto concitato tra briganti e birri, Davidde viene catturato e portato davanti al giudice. Si susseguono le testimonianze degli aggrediti, strampalate e divertenti, che lo conducono in carcere: la sua carriera finisce così, con un prete che lo vuole confessare.
Ho proposto il racconto piuttosto dettagliato, per indicare un grave difetto dello spettacolo, cioè il suo squilibrio: si tratta di un corpo disegnato male, a causa della massiccia intrusione dell’inconscio – sociale ed individuale – degli attori-autori; è colpa della scrittura a più mani. Probabilmente lo spettacolo itinerante e un titolo più pertinente avrebbero fatto scomparite lo squilibrio quasi del tutto.
Il secondo difetto, collegato al primo, è l’arbitraria scelta delle musiche di scena (i dischi registrati) che, per quanto efficaci e stimolanti, nulla avevano a che vedere con la situazione raccontata.
L’idea dello spettacolo-saggio, inteso come fatto corale in ogni sua espressione, è però interessante e va premiata: gli attori “vecchi” e i “giovani” usciti dal corso hanno dato molto e sono stati convincenti in molte situazioni. Soprattutto voglio fare un plauso a Noam Prosperi che ha cercato di dare spigliatezza ed energia alla figura del cantastorie-imbonitore, cosa per niente semplice con il pubblico tipicamente avaro che frequenta i teatri; comunque molti interpreti si sono mossi con naturalezza e portando la voce in modo abbastanza professionale.
Va riconosciuto alla regia un tocco esperto e risolutivo ed una certa ricchezza di idee, anche se in questa occasione non ci è sembrato avere lavorato a sufficienza per ottenere gli equilibri opportuni. Nella coralità dello spettacolo va incluso il lavoro prezioso di Eric Olijnyk, tecnico audio-luci artefice, come tutti, della buona riuscita.
Un’ultima perplessità: recandoci a Teatro abbiamo incrociato la Processione che rientrava nella Chiesa di San Bartolomeo. A noi è dispiaciuto che i due riti – uno profano ed uno sacro – si siano trovati in competizione, quasi in opposizione; meglio sarebbe trovare l’accordo tra tutte le manifestazioni di Cultura (anche una Processione lo è, oltre ogni valore Religioso). Forse è stato questo il motivo per il quale in teatro non erano presenti né il Sindaco né l’Assessore alla Cultura (che abbiamo incontrato in tante le altre occasioni).
Per inciso non partecipavano nemmeno alla processione.
pietro de santis