La vedova allegra
di Ferènc Lehar è l’operetta più famosa al mondo, almeno per quel che riguarda la produzione del ‘900. Andata in scena per la prima volta a Vienna il 30 dicembre 1905, godette di una fortuna eccezionale, tanto che nel periodo 1905-1915, in ogni parte del mondo, chi frequentava il teatro non poteva non assistere alle repliche. Si trattava quasi di un obbligo morale.
Come forma teatrale l’operetta si sviluppa dal Singspiel (canto e recitazione) – spettacolo nato e diffuso nell’Europa Centrale tra il XVIII e il XIX secolo, che aveva contato grandi autori come Mozart, ad esempio – ma raccogliendo, anche, il gusto frivolo, semplice e abbastanza osceno del Vaudeville (termine che indicava, probabilmente, le “voci della città”), sviluppatosi nel XIX secolo.
L’operetta è la forma teatrale forse più adatta al gusto della ottocentesca borghesia di città – perbenista, maliziosa ed ipocrita ad un tempo – e la sua fortuna si è protratta per tutto il secolo esteso dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni trenta del novecento, con qualche propaggine fino agli anni ‘50 e ’60, prima di essere sostituita da forme più moderne che hanno dato vita al Musical, il cui gusto borghese ammette, schizofrenicamente, anche fantasie di rivoluzione anti-borghese.
Il piacere provato assistendo all’operetta emana dalla musica, sempre accattivante, dalla presenza di un corpo di ballo piuttosto disinibito e dall’esibizione di scenografie e costumi sfarzosi: si tratta della rappresentazione in chiave sensuale della favola, accompagnata dalla musica, raccontata in parole che non inducano riflessioni troppo importanti e, per questo, inebriata dalle danze. In tale contesto “la vedova allegra” rappresenta tuttora un prodotto alchemico azzeccato, costruito intorno alla parola “seduzione”.
Negli anni conclusivi della belle époque “la donna disinibita” (cioè la donna emancipata dall’obbligo morale di preservare la verginità) inebriava il proprio pubblico di piacere per la vita, di favola e di sogno, di risvolti dolceamari prontamente riscattati dall’umorismo e dal sorriso. La “presenza scenica” degli interpreti doveva eguagliare la bellezza della musica e la ricchezza dell’allestimento: il pubblico doveva innamorarsi dei personaggi affinché – in un trionfo di giovinezza, bellezza e sensualità – le melodie rimanessero incollate alle labbra e chiunque, uscendo da teatro, ne tenesse in mente almeno una, decretando il successo dell’autore.
La vedova allegra offre con generosità arie sognanti (“Vilja”; “Tace il labbro”) e ritmi scatenati (“È scabroso le donne studiar” o il cancan finale) che sono indelebilmente impressi nella mente di quanti abbiano assistito, almeno una volta, alla sua messa in scena.
La storia è ambientata a Parigi, città nella quale si è trasferita la bella Hanna Glavary, vedova del ricchissimo banchiere di corte di Pontevedro, ipotetica e microscopica monarchia slava. La piccola nazione è con il fiato sospeso nel timore che Hanna Glavary sposi uno straniero, fatto che provocherebbe il collasso delle casse statali.
Il sovrano di Pontevedro incarica il proprio ambasciatore a Parigi di trovarle un marito pontevedrino. L’ambasciatore, barone Zeta, e il cancelliere Niegus cercano pertanto un candidato e lo individuano nel conte Danilo Danilovich, in passato innamorato di Hanna, ragazza dalle umili origini, e allontanatosi da lei per le pressioni della nobiltà famigliare.
Il barone Zeta organizza una festa all’ambasciata, durante la quale cerca di convincere Danilo a sposare la vedova; inopinatamente, alle sue spalle, si intreccia una storia d’amore tra la moglie, baronessa Valencienne, e il diplomatico francese Camille de Rossillon. Durante un successivo ballo in casa Glavary, Valencienne e Camille si appartano nel padiglione estivo, rischiando di essere scoperti dal barone Zeta: l’intervento di Niegus e Hanna, d’accordo per evitare scandali, attua un rapido scambio di donne e la vedova prende il posto della baronessa.
Quando Hanna appare sottobraccio a Rossillon, tutto il bel mondo convenuto immagina effettuata la scelta del marito: un parigino… ma, grazie alla sagacia di Niegus, ha luogo una nuova festa in casa Glavary. Vengono ricreate le atmosfere e i balli di Chez Maxim, nello scopo di attirare in una “trappola amorosa” Danilo che, frattanto, si consola bevendo champagne ed amoreggiando con le famose ballerine grisettes che sono, di fatto, bellissime prostitute. Quando Hanna, seguendo le indicazioni di Niegus, gli confida di avere effettuato lo scambio di persona, nel padiglione estivo, per salvare Valencienne e l’onore di Zeta, Danilo le dichiara il proprio amore e subito viene annunciato il matrimonio che salverà la patria.
A noi piace fare, sempre o quasi, qualche considerazione intorno all’inconscio sociale – concetto quanto mai potente ed efficace, introdotto da Sandro Gindro per spiegare i principi del comportamento umano (vedi L’Oro della Psicoanalisi, Alfredo Guida Editore, 1993) – che, mai come in quest’opera, rimane così tanto soddisfatto; qui lo facciamo in modo molto sbrigativo, esplicitando due indizi che La vedova allegra suggerisce suscitando “le frisson” agli spettatori:
– la correlazione tra soddisfazione sessuale e ricchezza, perennemente valida, espressa tramite l’idea di un “premio” elargito a chi possieda la capacità di soddisfare sessualmente (maschio o femmina che sia);
– la volubilità degli “organi sessuali” che debbono essere “legati ad una dote” (suggerirei a tutti di leggere – in “La storia delle donne – L’Antichità” a cura di Georges Duby e Micelle Perrot – il saggio “Come darla in matrimonio?” di Claudine Leduc).
Tornando in sala, la realizzazione da parte della compagnia Corrado Abbati, al Teatro Quirino di Roma, è risultata un po’ povera, soprattutto se rapportata agli sfarzi richiesti dal testo, in termini di scenografie, di costumi e di orchestra: le prime erano risicate, anche se professionalmente ben studiate per simulare ambienti diversi; i costumi tentavano di ovviare alla povertà con una discreta caratterizzazione orientata a luoghi ed atmosfere; mentre l’orchestra semplicemente non c’era…
E così: vai con le amplificazioni!
Gli interpreti mostrano, tutti, un livello professionale più che dignitoso; dotati di discreta “presenza scenica” risultano, però, abbastanza acerbi per spettacoli di questo livello, e piuttosto rigidi: a parte Corrado Abbati, straordinario attore e cantante che, nonostante una rispettabile età, riesce a comunicare armonia nel ballo anche solo muovendo un braccio ed un piede di tre o quattro prudenti centimetri, in forte contrasto con gli energici esercizi ginnici prodotti dagli altri.
Con queste premesse il primo atto (dei due, nei quali è stato adattato lo spettacolo) è risultato deludente e noioso; il secondo atto invece, grazie alla capacità teatrale di Abbati ed alla maggiore presenza di melodie e balli, pian, piano è riuscito a trascinare il pubblico che aveva una gran voglia di coinvolgersi ed applaudire.
Ad onor del vero ci siamo sentiti un po’ traditi per le scenografie spartane, i costumi abbastanza poveri e l’assenza dell’orchestra, effetto di insuperabili problemi economici. Avremmo apprezzato un atto di coraggio: fondali di carta e tre musicisti in scena, perché in fondo il teatro è sogno e bastano pochi elementi per sognare. Meglio sia sogno, piuttosto che ricordo sbiadito!
Compagnia Corrado Abbati: Corrado Abbati, Antonella Degasperi, Fabrizio Macciantelli, Raffaella Montini, Carlo Monopoli, Francesca Dulio; musica di Ferènc Lehàr; scene di Stefano Maccarini; costumi di Artemio Cabassi; coreografie di Giada Bardelli; direzione musicale di Marco Fiorini.
pietro de santis