Il mare
due tempi di Paolo Poli da Anna Maria Ortese
regia e produzione di Paolo Poli
con Paolo Poli, Mauro Barbiero, Fabrizio Casagrande, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco
Paolo Poli ama la simmetria e la cerca sistematicamente insieme con i suoi quattro attori: lui è al centro di una scenografia semplice – una passerella di tre praticabili posti a trapezio: due più alti ai lati, allargati verso la platea; uno in fondo e più basso – arricchita con fondali di stoffa dipinta che salgono, tirati da cavi, al cambio di scena; due quinte laterali, dipinte come porzioni di edifici, delimitano lo spazio scenico.
Gli altri attori si muovono intorno a lui: due a destra e due a sinistra; si scambiano di posto; ruotano abbandonando e riempiendo i luoghi predefiniti, uno alla volta, come nel gioco dei quattro cantoni. Poli ama entrare ed uscire sempre dallo stesso lato: la quinta di destra vista dalla platea; di conseguenza gli altri attori entrano ed escono dalla quinta di sinistra.
Il teatro di Paolo Poli, per il quale il gioco sembra la più autentica cifra, è sempre “en travesti”: le donne sono uomini travestiti da donne e – paradossale ma non troppo – gli uomini sono uomini travestiti da uomini. Suscitava una leggera sensazione di estraneamento vedere l’attore tra-vestito da uomo, in smoking e parrucca nera, introdurre la prima citazione da Anna Ortese.
L’impressione non è tanto del gioco omosessuale, anche se l’omosessualità non è messa in dubbio, ma proprio del gioco teatrale quasi infantile: un bambino vestito da bambina o una bambina vestita da maschietto, come accedeva e accade ancora nelle scuole elementari.
In effetti l’ironia che il suo teatro riesce a comunicare attraverso il travestitismo non potrebbe essere raggiunta senza di esso: qui, le ballerine sculettanti non ingannano certo nel merito della propria identità sessuale, ma lasciano molto ben comprendere il significato studiato di un gesto, più facilmente di quanto non vi possano riuscire attori e attrici che interpretando il proprio sesso con maggiore difficoltà saprebbero suggerire la medesima valenza ironica, dovendola svuotare della personale carica sensuale.
Al momento attuale, nei cartelloni italiani prevale il teatro realistico ed iper-realistico o, in alternativa, la commedia comica; il genere teatrale che Paolo Poli pratica è ormai quasi del tutto trascurato, con una perdita culturale importante soprattutto per la scarsa possibilità di svelare l’aspetto retorico, pesantemente impresso nel nostro inconscio sociale.
I testi da lui scelti, un po’ demodé, rispondono al “divertissement” colto ed ironico proprio perché intrisi di accenti retorici, grazie all’inconsapevolezza degli stessi autori che si rappresentano con grave serietà: la retorica del dolore, della nostalgia, dell’amore materno fanno da contraltare a quella del ministro irrigidito e profumato che, da casa propria, sostiene la necessità di “difendere la patria e i suoi valori” o a quella del politico-imprenditore ammiccante che afferma di dedicarsi all’interesse del popolo e di non mettere “le mani in tasca” agli elettori.
Di contenuti retorici sono densi gli scritti di Anna Maria Ortese, stimata autrice tra le più importanti del novecento europeo (per la verità apprezzata all’estero meglio che in Italia), la cui vita si è svolta vicino al mare: dalla Puglia a Portici; da Tripoli ancora a Napoli; per molti anni in giro nelle città italiane per tornare ancora a Napoli. I suoi scritti grondano dell’impronta tragica e piena di nostalgia per un traguardo mai raggiunto (“a Mosca! a Mosca!” scriveva Cechov) e, anche, del drammatico sentimento di invidia paranoica.
Lo spettacolo che Poli ha tratto dagli scritti si srotola in una successione temporale di piccoli siparietti la cui cronologia è scandita dalla musica: canzoncine d’epoche sempre più vicine a noi, fino agli anni sessanta (mi pare si concluda con “Quella cosa in Lombardia” di Enzo Jannacci).
Gli attori sono vanno accomunati in un caloroso applauso in una serata speciale anche per la vena istrionica del protagonista che ha saputo creare anche un siparietto molto gradito con il pubblico.
Le scene del grande Lele Luzzati ritraggono la pittura novecentesca in una semplicità quasi infantile; i costumi fantasiosi di Santuzza Calì sorprendono e divertono; le musiche di Perrotin, con la voce di Poli tendente sempre più ai toni bassi, caratterizzano lo spettacolo in modo convincente. All’uscita un amico ci ha svelato la sua impressione: spettacolo bello e malinconico. Abbiamo pensato di no, convinti dalla colta ironia di un adolescente di ottantadue anni.
(pietro de santis)